Conor O’Shea

Conor O’Shea

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Uno dei tanti motivi per cui mi piace l’Italia è la sua grande somiglianza con la mia Irlanda. A me sembra evidente.

I primi ricordi che gli sportivi della mia generazione hanno di solito parlano di scuole, di insegnanti e spesso anche di preti. Posti dove l’educazione del bambino andava di pari passo alla sua formazione tecnica ed emotiva, una volta era così e penso che anche nel vostro Paese le cose fossero simili.

Mio papà giocava a gaelic football che è uno sport tradizionale in Irlanda ed è davvero difficile da imparare.

È difficile perché devi usare le mani, i piedi e il fisico contemporaneamente.

Però è molto spettacolare e ti permette di sviluppare skills molto differenti tra loro tutte insieme, è una grande palestra per il futuro.

E papà era bravo.

Conor O’Shea

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Ma io sono cresciuto anche con due fratelli maggiori e li ho sempre guardati con grande ammirazione, cercando di seguire il loro esempio.

Look up at them.

Per cui a 7 anni mi sono trovato sul campo da rugby esattamente come facevano loro. Andavamo a scuola dai frati carmelitani e mi ricordo che la prima volta che ho visto l’allenatore ho pensato:

wow, deve avere 120 anni!

I miei primi quattro allenatori sono stati tutti anche uomini di chiesa e questo dava un certo equilibrio agli insegnamenti.

Diciamo un’abitudine, che diventa un way of thinking, che ti resta dentro qualunque cosa tu decida di fare in futuro.

Life first, rugby second.

Questa era la regola base, il modo in cui tutto veniva spiegato e tramandato di generazione in generazione. Ed è così che dovrebbe essere per tutti, a prescindere da ciò che nello sport vuoi fare: giocare, insegnare, allenare, guardare e basta.

 

Attenzione verso gli altri.

Rispetto delle regole, senza scorciatoie.

Cura dei dettagli e costruzione sincera dei rapporti tra le persone.

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Questo ci insegnavano.

Questa era la strada per raggiungere i traguardi senza dimenticare mai lo scopo finale per cui si fa tutta la fatica che lo sport ti chiede: mettersi alla prova e divertirsi.

Giocavo a numero 10 da bambino e non toccavo mai una palla.

Il mio mediano di mischia era Niall Hogan e ogni volta che facevo vedere le mani per ricevere allora lui la passava dietro, all’estremo che si inseriva sempre.

Allora quando ho compiuto 16 anni mi sono fatto spostare io a numero 15:

così adesso la dai a me la palla!”

Dieci anni dopo eravamo tutti e due, io e Niall, alla Coppa del Mondo in Sudafrica, quella del 1995 a difendere la maglia verde dell’Irlanda.

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Il Mondiale del ’95 è stato incredibile.

Quello era un rugby diverso, era ancora un gioco poetico, romantico.

Non c’era ancora il professionismo che c’è ora, quello che prende ogni aspetto della vita dell’atleta.

Quell’edizione è stata storica anche per motivi politici e ambientali ma ciò che io ricordo con maggiore piacere era il modo in cui si viveva lo stare insieme, anche alla vigilia di eventi importanti e sotto grande pressione mediatica.

Una volta c’era l’usanza di fare, prima di ogni grande competizione, l’inaugural banquet. Una cena dove intervenivano tutte le squadre per mangiare insieme a poche ore dalla prima partita.

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Niente televisioni.

No giornalisti, no stampa, niente foto.

Solo tutti i migliori rugbisti del Mondo fianco a fianco a mangiare, a stare insieme, a godersi l’unico momento nel quale sotto lo stesso tetto potevi trovare Jonah Lomu, Thierry Lacroix, Gavin Hastings, Rory Underwood, Francois Pienaar e Terry Kingston.

Magari con una birra in mano a parlare del gioco.

I sudafricani avevano organizzato tutto alla perfezione, partirono voli da ognuna delle sedi: Johannesburg, Durban, Città del Capo e Pretoria, alcuni portando anche più di una squadra contemporaneamente.

Quello era un rugby fatto di uomini che sapevano mandare messaggi anche senza usare il cellulare, come hanno fatto i neozelandesi, che sono arrivati apposta in ritardo.

Sono entrati nella sala in blocco, vestiti di nero da testa a piedi, come a dire:

siamo gli all blacks, we can be late!”.

Oh boy, è stata una serata incredibile, a parte la pioggia che scendeva a secchiate, tutto fu splendido.


Oggi è chiaramente diverso, diversa è la società, diverso è lo sport e quindi sono diversi anche gli uomini. Oggi la comunicazione è parte attiva del lavoro e un evento come l’inaugural banquet è complicato da gestire, da organizzare.

Infatti non lo fanno più.

E oggi che io non gioco ma alleno, e lo faccio in un Paese di grande tradizione, dove il rugby è un fenomeno in crescita, cerco sempre di portare con me lo spirito di quegli anni passati e lontani.

Perché costruire un gruppo di persone pronte a soffrire e faticare insieme non è facile e il primo mattone da mettere per riuscirci è quello di una comunicazione funzionale.

Parlare sinceramente, spiegare le cose, discuterne.

Non è facile per i giovani atleti vivere serenamente in un mondo, quello sportivo, che ti chiede di essere presente e attivo nella comunicazione esterna e poi però non ti perdona mai il minimo errore.

Tutti abbiamo il diritto di sbagliare ma lo sportivo ha in più il privilegio di girarsi e trovare la squadra pronta ad aiutarlo se lo fa.

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È su queste basi che cerco di essere l’allenatore migliore possibile.

Ho avuto la fortuna di lavorare con alcuni tra i più grandi coaches della nostra epoca: Warren Gatland, Murphy, Jonh Mitchell, ed è importante cercare di imparare un po’ da ognuno ma non cercare mai di essere la copia di uno in particolare.

Si perderebbe di credibilità, ed essere veri e consistent è una cosa fondamentale per poter allenare.

Ad alto livello la differenza la fanno i dettagli e i dettagli sono cose minuscole.

Il giocatore lo capisce se l’allenatore sta cercando di imitare qualcuno, e non lo ascolta più.

Per continuare a crescere dal punto di vista delle conoscenze è necessario accettare la contaminazione positiva dei colleghi, sempre.

Continuare ad imparare.

Perché l’atleta evoluto riconosce in chi lo guida la presenza di autocritica e della voglia di crescere.

Leading by example: se è flessibile l’allenatore dovrà esserlo anche l’atleta.

E i risultati saranno sotto gli occhi di tutti.

Poi ecco, se spegniamo il cellulare un attimo e torniamo a fare gli inaugural banquets io sono anche più felice.

Conor O’Shea / Contributor

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