Se potessi avere giornate di 30 ore, probabilmente, le riempirei lo stesso.
Soprattutto adesso.
Troverei il modo. Da cima a fondo.
Qualcosa da fare, qualcuno da vedere, qualche sfizio inatteso.
Uno spazio fresco, per me, ogni giorno.
Una piccola riserva segreta di tempo e spazio, dove rifugiarmi da sola.
Dopo Parigi è impossibile pensare di tornare alla vita di prima, anche se sportivamente non è cambiato nulla. Correre è rimasto solo correre.
È il palcoscenico che è diverso, adesso.
Gli impegni con gli sponsor, le tv, i giornali.
Un’ampiezza nuova, necessaria eppure stupefacente, dove quel che sono e quel che faccio è ciò che è sempre stato, ma il mondo, adesso, lo riconosce, lo abbraccia.
Lo commenta.
Lo nutre.

Ogni giorno, a casa, arrivano lettere e disegni, di grandi e di piccini, che mi raccontano cosa ha significato per loro, la mia medaglia olimpica.
E ognuna di loro contiene una storia, un messaggio.
Un perché.
Qualcosa che non esisteva prima del racconto stesso, e che poteva restare socchiuso senza di me, senza il traguardo, senza l’emozione. È una sensazione che non passa mai.
Che non sfiorisce e non si attenua.
Che mi fa sentire giusta.
Mi fa sentire piena.
Qualche tempo fa ero in panetteria, diligentemente in fila in attesa del mio turno e una coppia si è avvicinata a me con gli occhi a cuoricino.
La più anziana delle due, che avrà avuto una settantina d’anni, con la voce ferma ma piena di significati di chi sa quel che vuole esprimere da deve ancora capire il come, mi ha detto: “ci hai fatto capire cosa significa vivere.”


E come fai a dimenticarti una frase così?
Come fai a non sentirti investita di un qualcosa di grande?
Di grandissimo persino.
Una qualche responsabilità profonda, un senso d’amore, un abbraccio collettivo.
Guardavano insieme le Olimpiadi di Parigi, ha aggiunto la figlia, e aspettavano le interviste post gara per capire il mio stato d’animo, come avessi razionalizzato la prestazione, come la mettessi in prospettiva rispetto al momento presente, rispetto al mio percorso.
E da quelle parole prendevano forza, ispirazione.
Era come se la mia storia diventasse uno specchio per la loro.
Come se davvero, alla fine, lo sport diventasse una metafora dell’esistenza, come dicono sui libri.

È soltanto un esempio tra tanti, ma vorrei comunque poterlo sussurrare all’orecchio della bimba che sono stata, per vedere l’effetto che fa.
Raccontarle di tutta questa giostra di sensazioni enormi e bellissime che si sarebbe ritrovata dentro un giorno, senza manuale d'istruzione, e di cui lei, da piccola era totalmente all’oscuro.
Per fortuna.
Perché per quella bimba, lo sport è sempre stato soltanto sport.
Un gioco.
Un esperimento a cielo aperto.
Agile per natura.
Magra per costituzione.
Curiosa per vocazione.


Timida al primo impatto.
Esuberante al secondo.
Tremendamente responsabile quando sento che qualcosa o qualcuno inizia a dipendere da me. Sempre stata così.
Anche al cambiare delle stagioni e dei venti.
Anche al cambiare del tempo.
Mamma e papà si sono conosciuti ad un raduno, visto che correvano entrambi, e dopo soltanto 3 mesi si sono sposati.
Tre mesi di coraggio per vent’anni d’amore, mi pare uno scambio piuttosto equo.
Vent’anni di matrimonio, e al quarto sono arrivata io, che ero il loro desiderio più grande, sopratutto di mamma.

Mamma che ha deciso, per un po’, di fare la mamma a tempo pieno, mentre il papà girava ancora per il pianeta, tra gare, allenamenti e collegiali.
Passavamo tanti mesi in Marocco, ospiti di quel lato della famiglia, e molto del mio imprinting, molto del mio modo di essere, si è sviluppato lì.
Il senso di comunità, per esempio, visto che che lei era la nona figlia di una famiglia molto numerosa, piena di zii e di cuginetti. Persone fatte per stare insieme.
Le mie prime parole sono state in marocchino.
Alcuni dei modi in cui mi esprimo, in cui racconto chi sono, a me stessa e agli altri, sono il frutto di quella cultura, di quella prospettiva, che mi ha sempre dato un quid in più.
Viaggiavamo tanto, spesso per seguire le traiettorie di papà.
Ricordo quando a malapena correvo, ma mi piazzavano sul rettilineo finale dell’ultima serie di un allenamento, e mi “facevano fare l’arrivo” con lui.
Ho mangiato pane e atletica senza neppure rendermene conto, perché non è mai stato un invito esplicito, mai un pensiero espresso.
Correvo e basta.
Correvo anche quando andavo a danzare, o a giocare a golf, oppure a tennis, o ancora a nuotare.
Quelle erano cose che facevo.
Correre è quel che sono.

Ogni tanto, ancora oggi, qualcuno scrive a mio padre e gli domanda come mi allenassi da piccola, come io sia diventata l’atleta di oggi. Risponde sempre che ad allenarsi era lui, nel tentativo di starmi dietro, di inseguirmi, di acchiapparmi.
Che io non avevo bisogno di tabelle e di incentivi per far andare le gambe.
Poi sono arrivate anche le strategie.
Certo che sono arrivate.
La prima volta che ho partecipato ad una competizione organizzata avevo 7 anni e mi ero imbattuta quasi per caso nel campionato valligiano.
Ne avevo soltanto sentito parlare, e su spinta della mamma mi sono buttata.
Senza sapere neppure cosa stessi facendo, correndo e basta sono arrivata seconda.
La settimana dopo ci ho riprovato, e con i consigli di papà sulla condotta di gara ho addirittura vinto. Una sensazione che ricordo bene, ma che non poteva sostituire, e mai potrà sostituire, il piacere del gesto in sé.
La leggerezza del passo.
L’entusiasmo sommerso della fatica che ti monta dentro.
Il senso di pienezza che ti dà una corsa fatta bene.
Quello è il mio motore, ancora oggi.

Quando faccio un allenamento duro, anche durissimo, visualizzo un’enorme botte da vino, vino buono, ed è come se ogni passo, ogni ripetizione, ogni chilometro, mi aiutasse a riempirla. Con pazienza, un boccale alla volta.
E la gara è solo una valvola che si apre, dove svuotare tutto, senza pensieri.
La gara è il momento dove ciò che andava fatto è stato già fatto.
E io sono soltanto io.
Uguale a me stessa e diversa da prima.
Agile, magra e curiosa, come da bambina.
Una figlia la cui famiglia ha sempre corso.
Una donna che non poteva che correre pure lei, ma che ci ha comunque trovato dentro una ragione, un motivo, un significato tutto suo per amarlo per quello che è.
Nadia Battocletti / Contributor
