La mamma, in quanto mamma, la conosco da sempre.
Anzi da prima di sapere che cosa significhi davvero conoscere qualcosa o qualcuno.
Di fatto ho visto prima il suo corpo che il mio.
Ho sentito prima la sua voce della mia.
Eppure, Helen, la sto conoscendo solo ora.
Uno strato alla volta, un aneddoto, un racconto o un ricordo alla volta.
Come togliere un velo dopo l’altro, per permettermi di capire che alcune cose sono diverse da come le immaginavo, mentre tante altre invece sono esattamente quello che ho sempre intuito, senza bisogno che me lo dicesse ad alta voce.


Di mamma porto i capelli afro, che da piccola detestavo tanto e che ora sfoggio con orgoglio, anche se serve pazienza per prendersene cura.
Le chiedo spesso di mostrarmi foto di lei da giovane, di mostrarmi com’era alla mia età, ma risponde che non ne ha.
Sembra incredibile, lo so, eppure ha molto senso.
Perché non è facile sovrapporre l’immagine della donna forte, severa, indipendente e realizzata che vedo tutti i giorni, a quella di una giovane ragazza nigeriana che viveva in un villaggio senza elettricità e con il tetto della casa che si sollevava quando il vento soffiava troppo forte.
Eppure è sempre lei, anzi, è così perfettamente lei.
Aveva circa la mia età di oggi quando è arrivata in Italia, e il primo stipendio che ha guadagnato lo ha mandato interamente a casa, in Nigeria, per aiutare uno zio malato, senza tenere nulla per sè.
Me lo ha raccontato soltanto poco tempo fa, conseguenza di una conversazione di quelle schiette, delle nostre, durante una cena di sushi, tra le mie domande curiose e i suoi racconti senza fronzoli.
Un momento prezioso.


Mamma non ha mai paragonato la sua infanzia alla mia, non una singola volta.
La sua vita non è mai stata uno strumento di ricatto per portarmi ad essere più riconoscente verso di lei, neppure inconsciamente. Mai ha ceduto al desiderio del confronto, o della celebrazione dei suoi sacrifici.
E forse è per questo che sto inziando a scoprire il suo passato solo ora, che sono nel mezzo di un percorso tutto mio, che non ho più l’età dei capricci, e che possiamo guardarci negli occhi da donna a donna.
Papà si è innamorato in un secondo, tra i banchi del mercato di Porta Palazzo mentre comprava le uova, e da quell’incontro in poco tempo è nata la nostra famiglia.
Papà faceva ciclismo, e ho molti ricordi di scampagnate in famiglia sulle due ruote. Mamma invece correva, e l’atletica era il solo motivo per cui frequentava la scuola, che altrimenti saltava spesso, e molto volentieri.
Era una ribelle, e forse un po’ mi ci rivedo, anche se io non sono mai scappata dalla finestra per andare alle feste.

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L’atletica è lo sport simbolo dell’Africa.
Correre è semplice, e lei lo ha sempre fatto con addosso solo i suoi calzini bianchi. Altro non le serviva.
Secondo me era veloce, anzi ne sono certa.
Ma non lo sapremo mai con certezza.
In fondo non servono impianti particolarmente attrezzati o riscaldati, non serve cuffia, costume o occhialini: è un gesto naturale e libero. Economico.
Anche nuotare, per me, è qualcosa di estremamente intimo e istintivo, ma come posso non pensare alla fortuna che ho avuto io nel ricevere tutto ciò che mi serviva? O ciò che desideravo?
L’unico consiglio, se si può chiamare così, che ricordo mi abbia mai dato da piccola quando mi accompagnava agli allenamenti, è stato dirmi che non importava se ogni tanto gli allenatori mi dicessero di fare qualcosa piano, perché io, comunque, dovevo sempre andare forte.

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A volte mi chiedo se mamma sarebbe potuta essere un’atleta di alto livello, se solo fosse arrivata in Italia più giovane, se solo qualcuno l’avesse notata prima che la vita prendesse un’altra piega.
Ma sono certa che queste siano domande che mi faccio soltanto io, e non lei.
Non ho mai incrociato il suo sguardo prima o dopo una gara temendo che ci fosse anche solo un briciolo di invidia o di pressione nel vedere la figlia che vive una vita fatta di opportunità che a lei non sono state concesse.
È la mia fan numero uno, e io sono la sua.
Seduta sulle gradinate in mezzo ad altri genitori e appassionati che parlano e che gridano, la sua, è sempre l’unica voce che sento.
L’unica.
Urla fortissimo il mio nome, che sia un Campionato del Mondo o una prova regionale, che io abbia addosso la cuffia dell’Italia o del Centro Sportivo Esercito. Lo fa da sempre, e da sempre è fiera di me, qualunque sia il risultato.

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Mamma canta le sue preghiere per tutta la casa, è un sottofondo che mi accompagna da quando ne ho memoria.
La sua spiritualità, proprio come la sua personalità è molto colorata, vivace, spesso travolgente, e a volte mi ritrovo a farle da controcanto appoggiando la testa sulla sua spalla, in un momento che è suo ma anche nostro, fatto di parole che per ciacuna di noi hanno significati diversi ma che per entrambe ne assumono uno nuovo, condiviso.
Almeno fino a fine strofa.
Prima di ogni gara ci mettiamo in camera mia e preghiamo assieme.
Mamma mi disegna una croce sulla fronte con l’olio, simbolo di dignità e forza. E io la sento, la sua presenza.
Anche quelle volte che non può essere li di persona perchè è impegnata con il lavoro, io sento la sua energia, e quella di Dio. Sento che c’è qualcosa che mi spinge e mi protegge, e maggiore è la fatica che provo e più la sensazione aumenta.

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In questi mesi, dopo aver vinto i campionati italiani o aver partecipato ai Giochi Olimpici, ho risposto a molte domande, ho rilasciato molte interviste a tv e giornali.
Erano tutti interessati a capire chi fossi, a chi sia l’atleta che sto diventando e la donna che sogno di essere.
E forse parte, (gran parte) della risposta è tutta qui, nella storia di Helen.
Che correva con i calzini e scappava dalla finestra.
Che ha trovato l’amore con in mano una dozzina di uova.
E che ha trasmesso la sua forza ai suoi figli, che sono liberi, anche grazie a lei, di essere chiunque vogliano essere.
Sara Curtis / Contributor
