La ginnastica è la mia zona di comfort.
Lo è sempre stata, fin dal primo giorno.
Fin da quando ci presentammo in palestra e cercammo di partecipare al saggio di fine anno, anche se era soltanto un paio d’ore che eravamo lì.
Forse.
Testarde e ambiziose.
Visionarie.
Sognatrici prima ancora di sapere cosa valesse davvero la pena di sognare.
Non ci hanno lasciato partecipare, ovviamente, ma ci hanno mandato a giocare nella “buca”, quella piena di cubi di gommapiuma, ed è come se non fossimo mai più uscite.
È la mia comodità.
Lì sono a mio agio.
Lì e in tutta la palestra.
In tutte le palestre del Mondo.
Attrezzo dopo attrezzo, una casa sempre nuova, ognuna con la propria anima.
In particolare le parallele, che mi fanno sentire libera, un palcoscenico dove sono al 100% io. In equilibrio.
Senza aggiunte e senza rinunce a quel che sento di essere.
Di poter essere.
Di voler essere.
Di dover essere.


E non importa quante persone ci siano in palestra, quante paia di occhi mi stiano guardando, con quale competenza. Nel gesto tecnico io mi ritrovo.
Pienamente consapevole della quantità e della qualità del lavoro fatto fino a quel momento, io mi ritrovo.
Leggera della fatica passata.
Certa di aver tenuto fede alla promessa che feci a me stessa tanto tempo fa: che ogni impegno va portato fino alla fine. In ogni singolo momento.
Uno spazio in cui mi sento serena, dove cammino alta.
Dove mi muovo con grazia.
La mia passerella.
Diverso, invece, è parlare delle aspettative che vengono con i risultati, perché quelle sono più complesse e dipendono anche da fattori esterni.
Molti fattori esterni.
A volte mi è servito abbassarle, per esempio, pur di tenere sotto controllo le mie emozioni.
Perché lo sport è un ambiente difficile, creato per tirare fuori il meglio di te, e per farlo mettendoti alla prova, quasi sfidandoti per vedere se ne vali davvero la pena.
Spesso mi sono imposta di non sognare troppo in grande, in previsione del dolore che avrei potuto sentire dopo, se avessi fallito il mio obiettivo.
È necessario tradurre il nostro mestiere a chi lo osserva da fuori.
L’energia fisica ed emotiva che ho investito prima di Tokyo 2020, o di qualsiasi Europeo o Mondiale, non è stata certo meno impattante di quella pre-Parigi.
È che i risultati sono stati diversi.
E sono state diverse le cicatrici, i dolori.
Le critiche.
Il prezzo da pagare per ricominciare da zero.
Di nuovo e ancora.
In palestra, a settembre.

E allora, in certe occasioni, è più prudente non sognare affatto, e limitarsi a vivere il presente, per quello che è. Per quello che viene.
Così non si resta deluse.
Non troppo almeno.
Ma il tempo passa, e io non sono più la bimba tutta casa e palestra che faticava ad esprimere i propri desideri e le proprie paure. Quella che passava i pomeriggi volteggiando da un attrezzo all’altro, senza altri pensieri, insieme alla sorella.
La ragazzina timida, che i compagni di scuola invitavano alle feste, e che non poteva andarci mai perché si doveva allenare. Quella che poi, ad un certo punto, non invitavano nemmeno più, e che in risposta si chiudeva.
Sempre più diffidente.
Sempre più introversa.
Un’immagine così distante da chi sento di essere.
Da chi so di essere.
Da chi vede in me chi mi conosce da tanto tempo.

© Simone Ferraro
Non è stato facile, uscire dalla mia timidezza e prendere possesso di tutto quanto mi riguardasse nel profondo, anche al di fuori dalla palestra.
Un pezzettino alla volta.
Tante piccole conquiste, più dentro di me che altrove.
Un mosaico enorme, costruito gara dopo gara, anno dopo anno, che ha liberato tutta la mia semplicità, che mi ha fatto sentire pronta a condividerlo con gli altri.
Dopo i successi Olimpici la mia vita è certamente cambiata.
Se non nelle cose essenziali, quantomeno nella forma.
È come se fossi stata costretta a forzare un’apertura verso il mondo esterno, uno spiraglio che aspettavo da tempo, ma che forse non avevo il coraggio di aprire da sola.
Interviste, sfilate, viaggi, tante passioni che non ho mai coltivato quanto avrei potuto o forse voluto, prima di adesso.
Nuove amicizie, nuovi interessi.

© Simone Ferraro
Mai avrei pensato di trovarmi così a mio agio fuori dal mio ambiente.
Mai avrei pensato di cavarmela così bene in un terreno che mi faceva paura, dove temevo di sentirmi a disagio, perché tutti si sarebbero accorti che non ero sempre l’Alice forte e sicura che vedono in pedana.
Quella che si rintana nei gesti che ripete da una vita.
Sospesa tra i grandi obiettivi e la familiarità della disciplina.
Mai spaventata dalla grandezza del momento.
E invece, affrontando il nuovo, ho scoperto che il “momento” sono io.
Sempre e comunque, in ogni forma.
Anche passeggiando fuori dalla comfort zone.
Anche imperfetta.
Anche lontana dai miei amati attrezzi.
Alice D’Amato / Contributor
