Raven Saunders

9 MIN

Quanto lontano posso lanciare, nessuno lo sa.

Forse non lo so neppure io, che pure non mi sono mai fatta problemi a sognare in grande.

Dentro quelle 9 pounds scarse c’è una densità di pensieri, di storie, di passato, impossibile da misurare e ogni volta che lo faccio volare è come se tutto ciò che sono ci venisse compresso dentro, e si alzasse nel cielo, grazie alla forza dei miei muscoli, e del mio lavoro.

Vai.

Vai più lontano che puoi.

Il getto del peso nasconde un qualcosa di brutale, di antico, di ancestrale.

È una delle forme più semplici della competizione.

Raccogliere un sasso da terra e giocare a chi lo fa cadere più lontano, a chi è più forte, è un gesto quasi senza tempo, una sfida al passato.

È una sfida al bambino che vive dentro di te: vediamo chi fa meglio.

Vediamo se vale davvero la pena di crescere.

 

Non mi sono innamorata subito del getto del peso.

Neppure un po’.

A me piaceva la pallacanestro, che avevo provato per la prima volta quando ero in terza elementare, nella Church League, e da quel giorno, volevo soltanto tornare in palestra perché era la cosa che mi piaceva di più al Mondo.

Poi, un giorno, il coach mi consigliò di allenarmi con il getto del peso, così la mia velocità di piedi sarebbe migliorata, e magari me la sarei ritrovata in campo.

E ad una ragazza da 250 pounds, beh, sul parquet un po’ di leggerezza sarebbe davvero servita.

Raven Saunders

© Zaid Hamid Photography 2021 courtesy of Leidos

Con il peso ho vinto subito il mio primo meeting, ma non mi sono presa troppo sul serio.

Anche perché io non mi prendevo mai troppo sul serio.

Sono stata una bambina iper attiva, con la mamma e la nonna sempre pronte a cercare di recuperarmi, oppure di calmarmi.

Il padre biologico non ha mai fatto parte dell’equazione, ma avevo una bella famiglia allargata con tante figure maschili positive, come gli zii o come i cugini.

Li incontravo durante le feste, che magari non era come avere un papà in casa tutti i giorni ma, davvero, non era male.

Mi capitava di chiedermi chi fosse, dove si trovasse, e che mestiere facesse.

Ma il pensiero durava lo spazio di un istante.

Come era venuto se ne andava in fretta ed io tornavo a essere il tornado di sempre, super goofy, bravissima a far ridere tutti quanti.

A volte apposta, altre volte invece no.

Comunque, anche vincendo la prima gara, il peso restava un pensiero distante, per me. Come se fosse soltanto “un altro giorno in ufficio”, e non una passione sincera.

Era strano, però, ed era strano in modo bello, sentirsi finalmente brava in qualche cosa.

Vedere che in qualcosa, io, ero meglio di tutti gli altri.

Poi le competizioni si sono fatte un po’ più serie e ho imparato che il getto del peso non era soltanto una cosa della South Carolina, ma che lo conoscevano anche fuori dai confini dello Stato.

Mi hanno portata persino fuori da quelli della Nazione, per la mia prima competizione indoor, ma soltanto quando mi sono avvicinata ad un record americano, mi sono resa conto che, forse, avevo tra le mani qualcosa di importante.

Qualcosa che valesse la pena coltivare

Quando poi, a soli due giorni dal Natale, mi sono accorta che il mio coach continuava a chiamarmi nonostante le feste, ho capito davvero che avrei dovuto prendere la cosa sul serio.

Raven Saunders

© Zaid Hamid Photography 2021 courtesy of Leidos

Da quel momento, il getto del peso è diventato ciò per cui sono conosciuta, ciò che gli altri vedono prima di tutto il resto.

E questo succede un po’ a tutti gli atleti di alto livello, che si ritrovano incastrati dentro alla stessa narrativa che li ha resi popolari.

Se sei un giocatore di basket sei, prima di tutto, se non unicamente, un giocatore di basket. Ci vogliono tempo, pazienza e tante delusioni prima di riuscire a far passare il concetto che c’è altro, in te.

Che c’è qualcosa di profondo che ti definisce, e che non smetterà di farlo in base ai tuoi risultati sportivi, anzi.

Ne ho avuto la conferma alle Olimpiadi di Tokyo, le seconde per me, durante le quali ho ritrovato tutta la purezza della mia infanzia. Ho ritrovato tutta Raven.

L’esperienza di Rio era stata una specie di sogno ad occhi aperti, vissuto nella completa ignoranza del bimbo felice, quello incapace di capire il momento perché troppo impegnato ad amare qualsiasi cosa veda.

In Giappone è stato molto diverso.

Team USA era la nazionale più giovane da decenni, e il contesto COVID rendeva l’esperienza surreale. Da un lato uguale a sé stessa, piena di stampa e di aspettative, dall’altra completamente inedita, triste, solitaria. Asettica.

E io mi sono sentita madre di tutti.

Volevo che i ragazzi non pensassero troppo a ciò che non avrebbero vissuto.

Volevo che non pensassero al Villaggio Olimpico silenzioso.

Volevo che si divertissero, che lasciassero andare tutte le tensioni e che si godessero l’essere ai Giochi.

Raven Saunders

Anche il gesto sul podio è stato parte di quello che sentivo, di quello che volevo trasmettere agli altri.

La grande X sopra la mia testa rappresentava il luogo dove si incrociano le strade di tutti quelli che soffrono, che non hanno una voce, e durante i mesi di isolamento e pandemia hanno sofferto più degli altri.

Perché ci sono comunità che da sempre, nella storia, soffrono le crisi molto più degli altri. E quello era il mio modo per dir loro qualcosa.

Per dire a noi tutti, qualcosa.

Quando mi hanno fatto sapere che il CIO stava investigando e che forse avrebbero mandato qualcuno per prendersi la mia medaglia, ho pensato: “voglio prorpio vedere chi avrà il coraggio di pensarci!”.

È stato un momento che non avrei potuto progettare meglio di così, perché mi ha permesso di scegliere le mie parole, e non le loro, per dire quello che sentivo di dover dire.

Al Villaggio, la reazione degli atleti, gli abbracci, i sorrisi e i ringraziamenti sono tra le cose a me più care in assoluto, perché con loro condivido il peso di una responsabilità costante, di un mestiere che non mi definisce, ma che in una stanza arriva prima di me.

E dobbiamo essere da esempio, aiutare a condividere una cultura d’amore e di accettazione.

Non è sempre facile.

Ora, per esempio, sto aspettando l’inizio dell’anno Olimpico senza competere, perché ho saltato 3 “where-abouts”, e non posso gareggiare fino al 2024.

Dopo Tokyo ho vissuto dei mesi complicati, con la scomparsa di mia mamma, un importante intervento chirurgico, i dubbi sulla volontà di continuare.

Mi sono lasciata andare, e di fronte alla frenesia del momento mi sono scordata dei miei doveri.

Sbagliando.

Noi atleti dovremmo essere meglio di così.

Poco male, metterò insieme i miei pezzi e poi ricomincerò il mio percorso, convinta, come sempre, di poter essere la miglior lanciatrice del peso di sempre.

A volte mi chiedono cosa ci sia dietro il mio mettere una maschera, dietro ai capelli colorati, dietro alla mia personalità esuberante in pedana.

E io rispondo sempre “niente”.

Ci sono io.

Quello è il mio luogo sicuro, dove posso essere davvero chi sono, e se qualcuno volesse scoprire di più, basterebbe solo chiedere.

Perché chiedere, quello si che vale sempre la pena.

Raven Saunders / Contributor

Raven Saunders