Beat Feuz

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Lamentarsi è sempre la cosa più facile.

Ci si concentra su quello che sembra ci abbiano tolto, oppure cambiato, senza chiederne il permesso.

Ma a guardar bene, spesso, ci si rende conto di come in realtà, passato il primo momento, si sia stati più fortunati di altri.

E con il tempo si impara a fare tesoro di quel che si ha, perché in ogni situazione, anche la più antipatica, ci sono sempre due chiavi di lettura.

 

Certo, non poter concludere l’inverno scorso con le finali di Coppa del Mondo è stato strano, ma allo stesso tempo abbiamo potuto comunque portare a termine una stagione che per molti altri sport è rimasta semplicemente troncata a metà.

 

Come tutti gli atleti del Mondo, o quasi, ho dovuto cambiare i miei programmi, gli esercizi e le abitudini, allenandomi dentro casa pur di non perdere la forma e la preparazione.

Ma ho anche potuto restituire tante settimane del mio tempo alla famiglia, che mi ha dato tantissimo durante la carriera, e trascorrere tutto il tempo possibile giocando con Clea, mia figlia.

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In estate, poi, mi è pesato allenarmi da solo, lontano dai compagni di squadra e dai tradizionali ritiri in giro per il Mondo.

Però, poco dopo, in autunno, ho avuto la fortuna di poter sciare sui ghiacciai della mia amata Svizzera, ultimi bellissimi baluardi del freddo perenne, che non tutti possono vantare nella propria terra.

 

Quando fai sport ad altissimo livello, impari presto che per restare in alto serve la perfetta combinazione di tanti elementi diversi.

La forma fisica, l’esperienza, la conoscenza di un tracciato, la neve, i materiali, tutto contribuisce a determinare il risultato.

È un equilibrio sottilissimo, che si può rompere in ogni istante, perché se così non fosse, allora, tutti potrebbero arrivare in cima alla Coppa del Mondo.

E questo non succede.

Ecco, quando arrivi a conoscere un ambiente così profondamente ne accetti anche gli aspetti negativi, che molto spesso sono solo le facce nascoste di un’unica medaglia.

 

È la natura stessa dello sci a raccontarlo.

Io, per esempio, sono cresciuto a due passi da una montagna e il primo ricordo che ho sulla neve (che è anche il primo ricordo che ho in assoluto) è già piuttosto agrodolce.

Era domenica e avevamo organizzato una grande gara di famiglia.

Tutti presenti, fianco a fianco, sulla linea di partenza.

Il primo che arriva in fondo vince.

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Avevo cinque anni, ero forse il più giovane, di sicuro il più felice, e tutto mi sembrava perfetto: il sole, la montagna che era splendida e la neve che luccicava di bianco.

Dopo lo start penso di essere caduto una ventina di volte, prima di mollare definitivamente e abbandonare la gara.

Ero così arrabbiato che mi sono quasi dimenticato del bello che mi circondava.

Sparito.

Una sensazione che non scorderò mai.

Perché il il lato B del successo è il lavoro e, da quel giorno in avanti, mi sono servite centinaia e centinaia di ore per imparare a sciare come si deve.

Stavo fuori ad allenarmi finché era buio.

Tutti i giorni, che fosse domenica o che fosse lunedì.

 

Per arrivare in alto, quindi, serve lavorare tanto.

Ma chi lavora tanto fa più errori di chi lavora poco.

E facendo degli errori si può rischiare di farsi male, qualche volta.

È capitato anche a me, ovviamente.

La volta peggiore forse è stata quella del 2012, quando, dopo un’operazione al menisco che non sembrava poi così complicata, il mio corpo ha in qualche modo rigettato il trattamento e il ginocchio si è infettato in maniera grave.

Ne sono uscito grazie all’amore e al supporto della mia famiglia, degli amici e della mia compagna, ma è stato un periodo davvero buio.

Allo stesso modo, però, devo anche “ringraziare” un infortunio, un altro infortunio, per colpa del quale ho scelto di dedicarmi alle discipline veloci.

Una decisione che ha decisamente portato i suoi frutti.

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Quando ero più giovane, infatti, al ritorno in pista dopo un periodo di riabilitazione, mi sono trovato a faticare tantissimo nelle gare tecniche.

Accumulavo ritardi pazzeschi dai migliori, anche di 4 o 5 secondi, mentre invece nella velocità pura riuscivo a stare al passo con le mie prestazioni pre-infortunio.

Così, abbiamo subito deciso di spostare tutte le attenzioni sulla discesa e sul superG, raccogliendo poi tante soddisfazioni.

Lo sci è uno sport duro, che con una mano dà e con l’altra prende, ma in cui ti rendi conto che alla fine fatica e successo sono i lati di una medaglia sola.

Un lato luccica, l’altro invece no, ma sono comunque fatti dello stesso materiale.

Lo stesso vale per le cadute e la voglia di rivincita.

Per la bellezza di viaggiare e la nostalgia di casa.

Per gli infortuni e la conoscenza di sé stessi.

A volte vale anche per gli amici e gli avversari, perché dopo tanti anni che si corre l’uno contro l’altro si impara a dividere la sfida in pista dall’affetto che c’è fuori.

È quello che succede tra me e Dominik, per esempio, che ci conosciamo dai tempi delle gare giovanili e che molto spesso ci siamo giocati grandi gare sul filo del traguardo.

Spero di ritrovarlo e di ritrovarlo forte quanto e più di prima, perché averlo al cancelletto mi spinge ogni volta a tirar fuori il meglio di me per provare a batterlo, magari a partire proprio dai Mondiali di Cortina, che si correranno su una pista nuova per tutti.

La stagione che ci aspetta sarà diversa da tutte le altre, per mille ragioni, ma sarà anche l’espressione di uno sport in cui vittoria e sconfitta, gioia e dolore, ballano sui centesimi, e sono sempre e comunque la stessa cosa, dipende da che lato li guardi.

Beat Feuz / Contributor

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