Ruben Limardo

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Ho sempre saputo cosa significa lavorare per nulla.

Senza avere un guadagno o un ritorno economico.

Ho sempre saputo qual è la cosa più importante, tra un sogno e un soldo, da avere in tasca.

Da bambino ho iniziato con il baseball e con il volley, poi un giorno mi sono rotto la mano destra, e ho dovuto lasciar stare.

 

Mio zio era un grande allenatore di scherma, con anni di esperienza in Unione Sovietica.

Decise di tornare a casa, in Venezuela, giusto in tempo per mettermi un fioretto nella mano rimasta intera, la sinistra, e insegnarmi a tirare di spada.

Dieci anni più tardi, quando ormai era chiaro che ci sapessi fare, l’ho seguito nell’est Europa, in Polonia, dove avrei potuto diventare uno forte per davvero.

 

Tra la Polonia e il Venezuela c’è molta più distanza di quello che dice il mappamondo.

Freddo da una parte e caldo dall’altra.

Puntualità sovietica di qua e leggerezza latina di là.

Gioia senza freni sotto all’equatore, solitudine sopra.

 Ruben Limardo

Con il tempo mi sono abituato a vivere in mezzo alle rigidità in cui crescono i polacchi.

Un gelo che va oltre quello del cielo, e che ti prende l’anima.

Ho imparato la lingua, le usanze.

Ho capito che sotto gli strati di abiti pesanti anche in loro c’è un cuore pulsante, forgiato da anni di privazioni ma convinto di avere un mondo nuovo, in arrivo all’orizzonte.

 

Mi sono sentito a casa e, giorno dopo giorno, sono diventato bravo al punto di qualificarmi per le Olimpiadi di Pechino 2008.

 

Fu come incontrare un drago.

 

Un drago gigante, che ondeggia verso di te, sputando fuoco e fiamme, inghiottendo tutti coloro che si fermano ad ammirarne le zampe possenti.

Bellissimo, ipnotico, e decisamente troppo grande per essere reale.

Passai tutti i Giochi a guardarmi intorno, in attesa del risveglio che avrebbe spezzato l’incantesimo e riportato tutti, me per primo, nel grigiore del quotidiano.

A pizzicarmi poi fu il tempo, che se ne frega di tutto, anche dei draghi, e che mi lasciò, alla fine della mia prima Olimpiade, un po’ sedotto e molto abbandonato.

 Ruben Limardo

La mia prima vera Olimpiade, dunque, fu Londra 2012.

Alcuni mesi prima della cerimonia di apertura era morta mia madre, che è stata da sempre la principale credente nella mia personale parabola.

Lei credeva in me e in quello che facevo, sempre.

Persino prima che lo facessi io.

Persino prima che avesse una ragione per farlo.

Era la mia forza.

La portai con me in pedana, mi tenne la mano scambio dopo scambio, la destra, perché non ho mai smesso di tirare con la sinistra, e quando toccai per l’ultimo punto ebbi solo la forza di dire a me stesso: “si, sei un campione olimpico, va bene così!”

A me bastava quello, che la mamma sapesse in qualche maniera che non aveva creduto in una bugia, che aveva ragione.

Non sapevo che la mia era solo la seconda medaglia di sempre nella storia olimpica del Venezuela e quando atterrai a Caracas venni travolto da un interesse inaspettato, tracimante e soprattutto invadente.

Un’intervista dopo l’altra, chiunque voleva un pezzo della storia, un angolo di maschera, un centimetro almeno della mia spada dorata.

Fu tutto così veloce e difficile, per me che vivo nel presente e che il passato diventa subito solo un ricordo.

 Ruben Limardo

Quell’oro, per me, è rimasto lì.

Per anni, forse per sempre.

Come un vino buono, o come un dipinto, che col passare del tempo aumenta di valore e che con la morte dell’autore altro non farebbe che diventar più ambito.

 

Eppure la vita va avanti.

E se ne frega della gloria.

Si interessa di più agli affari di pancia e agli affare di cuore.

 

Così, mentre inseguivo la qualificazione alla prossima Olimpiade, il fato ha deciso di riprendersi parte di quel che mi aveva regalato.

A inizio del 2020 è nato, in Venezuela, il mio secondo figlio, proprio mentre io mi giocavo i tornei di qualificazione per Tokyo e il resto del pianeta scivolava vittima della pandemia.

 Ruben Limardo

Per 10 mesi non ho potuto vedere mia moglie e i miei bambini, arrangiandomi come tanti, come tutti, con quel che la tecnologia permetteva.

Appena tutti siamo tornati a rifiatare, a viaggiare e a vivere, ho cercato di portare il resto della mia famiglia da me, in Polonia, che così mi mancava un pezzo, e perché il piccolo potesse imparare l’odore del suo papà.

 

Ho fatto tutto il possibile.

Compilato centinaia di documenti.

Ho messo in mezzo anche il ministro dello sport del mio Paese, finché non sono riuscito a ottenere per loro tre il diritto di imbarcarsi verso Varsavia, via Roma.

 

Ad essere sincero pensavo che per il volo il mio Paese mi avrebbe aiutato, e invece, poco prima di imbarcarli, mi inviarono la fattura del biglietto.

Era più di quanto avessi.

Ho pagato con la carta di credito, che il problema sia del me del mese prossimo, e così li ho fatti partire.

Durante lo scalo a Roma ecco un altro inconveniente, e un nuovo biglietto da acquistare da zero, che ha ingrossato la lista delle mie preoccupazioni.

 

Quando è arrivato l’estratto conto della carta di credito, mi sono detto che dovevo fare qualcosa per esaurire il debito e assicurare alla mia famiglia un presente sereno, senza per questo rinunciare ai Giochi.

 

Perché chi vive di sport, di alcuni sport, spesso vive d’amore, o giù di lì.

 Ruben Limardo

Ma l’amore non sempre basta a riempire la pancia e proprio per riempire la pancia ho scelto di iniziare a consegnare le pizze.

Uber mi permette di scegliere le ore in cui lavoro, e di mantenermi libera l’agenda per continuare ad allenarmi, visto che a Tokyo io voglio andare e voglio vincere.

I primi due mesi ho consumato i copertoni, perché volevo veder sparire il meno dal mio conto corrente.

Ora lavoro a ritmi più leggeri, ma non smetto comunque di farlo, perché ho due figli, delle responsabilità e nessun problema a sporcarmi le mani.

Eppure sono felice.

Sono felice perché la mia famiglia è qui e io mi sento completo.

Felice perché la mia famiglia è qui e io mi sento tutte le energie che mi servono.

E anche di più.

Consegno le pizze.

Perché mi servono i soldi e perché voglio vincere le Olimpiadi di Tokyo.

Ho sempre saputo qual è la cosa più importante, tra un sogno e un soldo, da avere in tasca.

E la risposta la so io, la sapete voi e la insegnerò ai miei figli.

Ruben Limardo / Contributor

 Ruben Limardo