Normale come loro.
Tutto quello che sognavo di diventare era normale come loro.
Normale come i grandi esempi che vedevo in casa, tutti i giorni.
Normale come i campioni che spesso frequentavano i nostri spazi, i nostri pranzi, la nostra normalità.
Normale come chi della scherma aveva già fatto un mestiere, un lavoro, un’avventura commerciale, una prospettiva quotidiana.
L’aria.
Come chi della scherma aveva fatto l’aria.
Io sono cresciuto così.
Ad aria e scherma.
Immerso fino al collo nella grandezza altrui, di arma e di pensiero, di polso e di anima. Capitolo ancora in bianco del diario di una famiglia la cui pedana era, sempre e comunque, anche un palcoscenico.

Il primo ricordo che ho di me, la prima immagine, è una foto appesa in casa dei nonni, nel salone grande.
Sono vestito da schermidore, da capo a piedi e guardo assorto le Olimpiadi di Londra.
Sognante.
Il naso dentro la televisione.
La divisa completa.
I sogni a fior di pelle.
Un luogo un po’ fisico e un po’ no.
Un po’ reale e un po’ fantastico, dove si concentrano tutte le vite e le aspirazioni che ho toccato nel tempo. Quelle che abbiamo toccato insieme.
Ognuno comparsa o attore non protagonista nel film degli altri.
Mamma, papà, zio: tutti devono qualcosa alla scherma.
E tutti le hanno restituito quel che potevano, a modo proprio.
Con il proprio marchio impresso sopra.
E poi, alle fondamenta, c’era il nonno.
Nonno Carlo.
Principio e inizio.
Patriarca e colonna.

Insegnante per tutti e allievo per sempre.
Dell’esistenza, della felicità, della scherma stessa.
È stato il mio primo maestro, quello che mi ha messo il fioretto in mano e quello che mi ha guidato fino all’età adulta.
Quello che mi ha condiviso tutto il suo sapere e il suo essere.
Persino il carattere.
Testardo come sono e testardo com’era.
Il pensiero della scherma è legato a lui, e sempre lo sarà.
Lui è la scherma.
Almeno per me, ancora oggi.
Il primo assalto Olimpico, del primo match Olimpico è stato per nonno Carlo.
La stoccata che ha chiuso la semifinale, che voleva dire medaglia, è stata per nonno Carlo. Un triangolo perfetto, equilatero, solido come un diamante: io, lui, lei.
Anni di distanza e mi ritrovo tutti i suoi insegnamenti, tutte le sue parole.
Anche se mi dispiace un po’ che in pedana lui abbia vissuto soltanto il peggio di me.
Pochi risultati di spessore.
Tanto amore, certo.
Una comunione assoluta, di intenti e di affetto.
Ma pochi successi, poca soddisfazione materiale.

È come se lui mi avesse accompagnato fino alla porta della grandezza e poi mi avesse lasciato entrare da solo, guardandomi da lontano.
Fiero.
È come se il trasporto dell’uno verso verso l’altro fosse troppo per andare oltre e fare quel che serviva per arrivare ad esprimere davvero tutto il mio potenziale.
Una transizione dolorosa ma necessaria.
Resa più difficile ancora dalla sua malattia.
Nonno Carlo si è ammalato nel 2018, ed è venuto a mancare l’anno dopo.
Perderlo, prima in pedana e poi anche nella vita di tutti i giorni, ha significato ricalibrare tutto il mio sentire, tutti i miei pensieri. Tutti i miei equilibri.
Marco, il nuovo allenatore, mi disse: “non sono un tuo parente, ti adoro come persona, ma in palestra non ci saranno sconti. Mai.”
E solo allora ho cominciato a capire che il talento non era abbastanza.
Che ero pigro.
Che potevo e dovevo cambiare molti lati per andare dove desidero andare.
Quelli del Covid, tra il lock-down, la mia rivoluzione, la perdita del nonno e molto altro ancora sono stati anni difficili e trasformativi.
Una fortuna nella sfortuna.
Una scoperta.
Un tetris di anima e di pedana, che è durato fino a Parigi.
Perché fino a Parigi, la mia scherma è stata mandata avanti da un fuoco.
Un petardo enorme, la cui miccia si accendeva al primo passo.
Al primo assalto.
Un modo di affrontare il duello completamente differente da quel che sono fuori, dove la tranquillità è, o almeno cerca di essere, la mia stella polare.
Ma la scherma, quella no.
Quella era un’esplosione costante, il riassumersi in ogni singolo incontro, in ogni singola stoccata della rincorsa primitiva, del sogno del bambino.
“Essere normale come loro” significava provare a prendermi tutto.
Subito.
Mangiandomi non soltanto l’avversario, ma anche la palestra, il pubblico, il contorno.
Il mondo intero.
Un disequilibrio perfetto, dove per dare il meglio di me, sentivo, obbligatoriamente e inconsciamente, di dover abitare un estremo.
Il mio estremo.
Quel luogo dove la rabbia e il furore agonistico erano in grado di sbloccare le mie qualità ultime, le più impattanti, le più incontenibili.
Una sensazione totalizzante, che nasceva, ogni volta, dal fatto di sentirmi non sufficientemente appagato. Come una fame.
Ora è tutto diverso.
La medaglia di Parigi ha riempito il mio stomaco, prima ancora della mia bacheca.
È la sedia con cui sedermi al tavolo dei grandi, al tavolo dei “normali come loro”.

E io, adesso, sono di nuovo in cerca di uno spazio in cui esprimere chi sono.
Forse in cui capirlo.
Il fuoco rabbioso che aggredisce la pedana, non lo sento più. Ma la qualità che riuscivo a raggiungere sorretto da quell’impeto la devo comunque ritrovare, appoggiandola magari su qualcosa di diverso.
Qualcosa di replicabile, di controllabile.
Non posso più essere arrabbiato.
Ora devo abbracciare la mia nuova dimensione e normalizzare l’eccellenza che pretendo da me. Che tutti pretendono da me.
Come se il fuoco, dopo averlo acceso, nonno Carlo se lo fosse anche ripreso.
Serve a lui, per fare luce ovunque si trovi, e non smarrire la via.
Probabilmente sa che a me non occorre più, che la strada è tracciata, e io sono già tornato sulla porta di casa. Normale come chi mi aspetta all’interno.
Filippo Macchi / Contributor
