Luc Alphand

12 MIN

Il gene della velocità è difficile da spiegare.

In pochi lo comprendono.

In pochissimi ce l’hanno.

E nessuno è davvero in grado di spiegarlo.

 

È come avere un piccolo chip, sotto pelle, proprio all’altezza del cuore, che rallenta i tuoi battiti quando quelli degli altri aumentano, che ti rende visibile la linea che separa l’incoscienza dalla consapevolezza. Una linea che, fuori dallo sport, è pericoloso anche solo provare a tracciare.

Correre è un’esigenza, la sola forma del Mondo, che va preso a colpi di gas: il solo strumento che io abbia mai avuto per appiattire le montagne della vita.

Per raddrizzarne i tornanti.

Oltre la passione.

È quasi una dipendenza, contro cui non esiste rimedio, contro cui non esiste vaccino che non sia una piccola dose della malattia stessa.

La velocità è quella del pensiero, oltre che quella del corpo, e si realizza nella sensazione di pace e di calma che puoi trovare solo al centro del tornado.

Mentre tutto intorno è un fischiare di venti, di alberi ed elementi naturali, tu, al centro, sei soltanto silenzio. Silenzio ed equilibrio.

La mente si affila, i sensi si fanno più aguzzi, e la vita scorre al rallentatore.

Luc Alphand

Il gene della velocità si può allenare.

Si può ammansire. Cullare. Odiare. Amare.

Si può persino provare a tirargli il freno a mano.

Ma non si può creare: o ce l’hai o non ce l’hai.

E io ce l’ho sempre avuto.

La prima volta che hanno provato a farmi andare in vacanza al mare, in una colonia, sono tornato a casa malato, triste, come se avessi perso un mese della mia preziosissima vita di bambino.

Fu un incubo, non tanto per la compagnia o per il posto in cui ci trovavamo, ma perché quella scelta sciagurata dei miei genitori mi aveva privato della mia montagna, dei miei momenti, del mio spazio vitale.

Mamma e papà gestivano un rifugio a 2600 metri d’altitudine, e per me e mio fratello Lionel, quello era l’ombelico dell’intero Pianeta. Tutto ruotava intorno a quella baita, a quei pendii. Ci passavamo l’estate intera, scendendo un giorno sì e un giorno no fino al paese per fare la spesa. Era un viaggio di massimo un’ora, ma a noi, quella corsa, sembrava infinita. Bellissima e infinita.

Lionel ha un solo anno più di me e questo ci ha sempre reso amici, prima che fratelli. Ci arrampicavamo, facevamo escursioni, sciavamo sulla neve fresca, facevamo i salti.
Il limite non c’era.

Il resto non c’era.

La legge non c’era.

Eravamo soltanto noi, le biciclette, gli sci, la ricerca della velocità e gli scappellotti che prendevamo dai miei genitori quando combinavamo qualcosa di sbagliato.
E questo succedeva praticamente ogni giorno.

Luc Alphand

Papà faceva la guida alpina e l’istruttore, così ci ritrovammo quasi subito con un paio di sci ai piedi, come tutti quanti i bambini cresciuti all’ombra della Serre Chevalier, la stazione sciistica del Parco Nazionale dell’Ecrins.

Sciare non era propriamente una scelta.

Ma non era neppure una costrizione.

Era più una necessità dell’essere, la conseguenza dell’esser nati dove eravamo nati. Per entrambi, il divertimento non veniva dalla competizione in sé, del gioco, o dal miglioramento personale che veniva dall’allenamento.

Ciò che ci divertiva davvero era la velocità.

Lionel era un pazzo.

Pazzo vi dico.

E io lo seguivo in ogni cosa.

Nessuno dei due era davvero talentuoso e, soprattutto, ad entrambi lo slalom, che è la disciplina con cui si inizia a sciare, annoiava a morte.

Destra. Sinistra. Destra. Sinistra.

Non c’era adrenalina, non c’era il brivido lungo la schiena.

Ma quando qualcuno lanciava una scommessa folle, noi eravamo sempre i primi a raccoglierla. I primi a provare una via nuova lungo il pendio della montagna.
I primi a provare un salto sulla neve fresca del mattino.

Eravamo parte della montagna almeno quanto lei lo era di noi, e volevamo essere sempre i primi a parlare con lei.

Luc Alphand

Poi sono cresciuto, e crescendo mi sono accorto che non c’era soltanto lo slalom, che potevo anche fare la discesa, e che la discesa è molto più vicina alla mia idea di sci.

È stato il primo vero assaggio di competizione, che mi ha permesso di capire che forse valeva la pena allenarmi duramente, cominciare a sognare più in grande.

Ho cominciato a desiderare di voler diventare forte, e ad allenarmi di conseguenza, prendendo per le orecchie il mio talento nella media e portandolo di peso fino in cima, tra i migliori del gruppo.

Avevo 15 anni, ed ero deciso a fare del mio gene della velocità un lavoro.

Quando sono arrivato in Coppa del Mondo, senza Lionel, questa volta, mi sono accorto che non ero il solo ad averlo.

Il giorno della prima ispezione, ad Aspen, rimasi così impressionato dalla velocità e dalla potenza degli altri atleti. Così come lo fui anche dall’organizzazione dell’evento, dalla struttura, dall’imponenza delle cose.

In fila con me per salire sulla pista c’erano i grandi austriaci degli anni ‘80, c’era Girardelli, c’era Zurbriggen. E c’era anche Peter Muller, svizzero, che mi prese per la collottola e mi spinse via senza fare complimenti: “vattene, io sono nel primo gruppo. Tu no, ragazzino!”
Quello fu il mio benvenuto.

Quello e la prima volta a Kitz.

Luc Alphand

Per arrivare in cima, a Kitzbuhel, una volta, c’era una vecchia teleferica in legno, dalla quale non riuscivi a vedere granché bene la pista, e questo era tanto un bene quanto un male.

Io, in quanto aspirante velocista, ero eccitato di provare il tracciato di cui tutti parlavano, e mentre salivo cercavo di scrutare gli angoli da fare, pensando tra me e me che linee sarebbe stato meglio disegnare.

Poi sono arrivato su.

E quando ho messo il naso fuori dal cancelletto di partenza, tutte le teorie e le traiettorie sono scomparse all’improvviso.

Holy shit”.

Devo buttarmi giù da QUI?

Ancora ricordo la soddisfazione che ho provato quando sono arrivato in fondo sano e salvo.

Questa è un’altra cosa stupenda della velocità: c’è sempre il gradino successivo.

Non esiste la sfida definitiva. Non esiste l’ultimo livello.

C’è sempre qualcosa dopo. C’è sempre una marcia in più da scalare.

Ogni soglia si crea per un misto di competenze tecnologiche e paure personali, ed è proprio questa componente umana a renderla friabile. A renderla un’illusione.

Ho avuto una carriera lunga, nello sci, e nonostante non sia stata tutta rose e fiori non ho mai smesso di cercare di compiere il salto successivo.

Non ho mai smesso di andare oltre.

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La nazionale francese con cui ho cominciato la mia avventura era una nazionale giovane, che usciva da anni di anonimato internazionale. Fu Franck Piccard, con l’oro in Super-G a Calgary 1988, a farmi capire che anche io potevo aspirare a tanto, prima o poi.

Nei primi anni di Coppa del Mondo ho pagato l’inesperienza al gene della velocità, ho pagato il prezzo di un telaio non ancora potente a sufficienza per reggere i giri a cui volevo far girare il motore. Ero più spesso all’ospedale che in pista, nonostante qualche momento esaltante. È stato frustrante, per me e per gli altri, e ho dovuto passare più tempo a rincorrere le mie aspettative che non a coltivarne di nuove.

Poi, alla soglia dei trent’anni, mi è scattato dentro qualcosa. All’improvviso ho smesso di fare le cose per gli altri e ho iniziato a farle soltanto per me.

A volte succede, anche ai professionisti, anche a chi ha passione, che l’allenamento diventi un dovere, e che se salti una ripetizione la tua coscienza comunque chiude un occhio, e ti dà un lascia passare. Così ho cambiato approccio, ho imposto chi volevo essere, pur restando parte di una squadra.

Volevo essere più grosso, più pesante, più grasso.

Volevo ascoltare di più il mio corpo.

Così mi sono infilato nella parabola perfetta, dove tutto si è allineato per permettere finalmente al gene della velocità di palesarsi al mondo.

Coaching, integrità fisica, self confidence: tutto è fiorito come una gemma di ghiaccio, e gli ultimi tre anni della mia avventura sono stati magici.

Tre Coppe di specialità, più la Coppa generale del 1997, apice di una carriera che ho voluto interrompere lì, mentre ero in cima, sulla testa di tutti.

Luc Alphand

Il gene, però, non se n’era mica andato e, a questo punto, credo che non lo farà mai.

Prima ho provato il chilometro lanciato, toccando i 227 chilometri orari protetto solo dal casco e dalla tuta. Poi sono passato al rally, il mio secondo grande amore.

Guardavo i grandi dell’epoca gareggiare dalle camere d’albergo dove andavo per la Coppa del Mondo di sci. Guardavo Colin McRae, Carlos Sainz e tutti gli altri, senza neppure sognare di poter correre con loro.

Ho provato a guidare sul circuito di Le Mans, ed è stato facile.

Girare a 300 chilometri orari non mi scomponeva, non mi metteva in difficoltà.

Dallo sci avevo ereditato la capacità di calcolare le distanze, di valutare la velocità a cui si muovono le cose: per me, gli oggetti non sono mai stati “più vicini di quanto appaiono”, come viene scritto sugli specchietti delle macchine.

Mi sono fatto convincere in brevissimo tempo, e sbattendo i pugni sul tavolo per l’eccitazione, ho deciso che avrei accettato la proposta della Mitsubishi di partecipare alla Parigi – Dakar, forse la gara più dura al Mondo.

Di certo la più famosa.

Ai giapponesi non importava nulla di chi fossi stato prima di allora, erano più interessati al fatto che l’esser stato un grande atleta mi avesse insegnato cosa serve fare per diventare forti in qualcosa.

Il gene ha fatto il resto.

Mi ci sono voluti anni per arrivare al massimo livello, e quando ho scritto il mio nome anche in quell’albo d’oro lì, un cerchio si è chiuso definitivamente.

Almeno fino alla prossima avventura.

Perché la velocità è la forma del mio tempo, l’aspirazione della mia esistenza.

Non posso farci nulla: più vado vicino al limite e migliore è la sensazione.

In pochi lo comprendono.

E nessuno è davvero in grado di spiegarlo.

Luc Alphand / Contributor

Luc Alphand