Massimo Colaci

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La vita è come una seduta di pesca, metafora dell’esistenza trovata in una passione che, io, ho ereditato da mio zio e da mio papà.

Può essere una pesca lenta, in cui ti piazzi di fronte al mare, con la tua cannetta, di mattina presto o la sera tardi, lontano dal flusso dei turisti, e aspetti.

Aspetti ore e ore, nella speranza che succeda qualcosa.

Che qualcosa abbocchi.

Il silenzio che ti circonda è fastidioso, in principio, le tue orecchie quasi lo combattono. Poi, col passare del tempo, diventa la carezza che stavi cercando.

Sei fermo, perché sei fermo, ma nella frenesia del vivere, quel momento di pausa, si trasforma nella risposta ai dubbi che hai.

Addizione per sottrazione.

Massimo Colaci

Oppure, la pesca, può essere subacquea, e in quel caso il ritmo della quotidianità, invece che frenato, viene preso e shackerato ancor di più, richiamando quello che faccio di mestiere.

Un movimento perpetuo, fatto di meraviglia e di felicità, che nei colori della mia terra, come una dinamo, ricarica le proprie pile.

Nei mesi scorsi, le coste della Puglia erano piene di tartarughe, e nuotare in mezzo a loro mi faceva sentire come se fossi dentro ad un documentario.

Attesa e frenesia: a parer mio, la vita e la pallavolo, sono così.

Soprattutto se sei nato in paese piccolo.

Se sei nato in un paese piccolo, devi fare qualcosa più degli altri per andare lontano.

Punto.

Quelli cresciuti in una grande città, o in una grande società, prima o poi, un’occasione ce l’hanno.

Un bonus.

Uno solo.

Ma ce l’hanno.

Ci devi mettere del tuo, questo è chiaro, ma quella singola carta da giocare, tu sai di averla in tasca, ed è una sensazione capace persino di re-indirizzare la volontà, che deve trovare almeno una ragione al giorno per allenarsi duramente.

A quindici, sedici, diciassette anni, non è affatto una cosa banale.

Massimo Colaci

© Michele Benda

Io, la mia carta da giocare, me la sono andata a prendere.

Non in auto, non in scooter, non in autobus.

Ci sono andato a piedi e facendo l’autostop, tanta era la voglia di arrivare.

Nella mia adorata terra, che ama la pallavolo, ma che dalla pallavolo si sta pian piano allontanando, per arrivare al palazzetto e allenarmi non avevo alternative che fare l’autostop.

E lo facevo.

Tutti i giorni.
Perché non avrei mai accettato di perdere un sola sessione.

Tenso-strutture, palloni, palestrine delle scuole medie: cose che a pensarci ora viene un po’ di nostalgia e un po’ di brividi sulla schiena.

Non si può dare per scontato il percorso che ho fatto.

Non c’erano scout e osservatori che si scendessero fino alla B2 pugliese, né in senso geografico, né in senso filosofico.

Eppure quella era casa mia. Lì ero cresciuto, passando le estati tra il mare, il calcio ed il volley con gli amici e i cuginetti. Lì avevo visto i miei primi palazzetti pieni di gente, la passione delle tifoserie e l’entusiasmo per un derby.

Lì avevo iniziato a sognare di diventare un giocatore.

Massimo Colaci

© Michele Benda

Dai Falchi di Ugento al Volley Corigliano: poco più di 300 chilometri da un palazzetto all’altro, che con le strade del sud Italia, a volte, possono significare quasi quattro ore di macchina.

Eccola la mia prima scommessa, la prima pesca miracolosa della mia vita.

“Vai! Parti e vai da solo!” aveva detto papà, che al mio stesso sport aveva dedicato tutta la propria vita, o quantomeno tutta la vita che c’è dopo aver timbrato un cartellino.

Parti e ci provi, cosciente che, sportivamente parlando, ti stai gettando nel vuoto senza un paracadute. Che non sei nessuno, e che non vieni da nessuna parte.

Hai soltanto idea di dove vorresti andare.

Pensi all’Università che la mamma vorrebbe che facessi, e pensi al fatto che se dovesse andare male in campo, saresti di un anno indietro rispetto a tutti gli altri.

Non scommetti su chi vorresti diventare.

Scommetti su chi sei già, confidando che quando lo scopriranno anche gli altri non scapperanno a gambe levate.

Massimo Colaci

Un anno più tardi partivo per Verona, dopo aver caricato una scassatissima Peugeut 107 oltre ogni umana comprensione, nella speranza che portarmi dietro una grossa fetta di casa mi ci avrebbe fatto sentire ancora dentro.

Passano gli anni e non smetti di farti domande e di dubitare di quel che vali.
Ed è proprio la scintilla di quel dubbio a non farti sentire mai arrivato.

Più vai lontano e più dubiti di esser forte abbastanza, ma più dubiti e più lavori.

Più lavori e più diventi forte.

Ed è esattamente questo a portarti lontano.

Invecchi, fai le spalle larghe e impari a stare al mondo.

Hai la fortuna e il merito di vincere dei campionati e coppe di ogni tipo. Lo fai partecipando a cambiare il ruolo più becero che ci sia, quello che meglio lo fai e meno vieni notato.

Conquisti la nazionale, te la tieni con le unghie e con i denti aggrappata addosso.

Vai alle Olimpiadi e torni con una medaglia, che se la facessi vedere a chi ti caricava quando facevi l’autostop farebbe davvero fatica a crederti.

Massimo Colaci

Verona, Trento e Perugia: ormai inizio a sentire la fine di questo pellegrinaggio.

Ancora non so dire quanti anni mi restano da passare in spogliatoio, ma so per certo di voler smettere lasciando soltanto ricordi buoni.

E mi sale la rabbia al pensiero che “dentro” al campo mi resta poco da vivere, perché smettere è un lutto e perché era soltanto ieri che partivo da casa, a caccia di qualcosa di più grande di me.

Attesa e frenesia: lo sport è un equilibrio instabile, nel quale non appena hai capito di cosa sei davvero capace, il tempo ti chiede indietro una vita non tua.

Quella dell’atleta è un’esistenza in prestito, che cerchi di ammobiliare come meglio puoi, per sentirla tua e soltanto tua.

Gli spalti si vuotano, lo champagne si appiccica alla moquette, e le ossa cominciano a scricchiolare. Man mano che le stagioni passano, la tua auto diventa sempre più grande, perché allarghi la famiglia, ma la carichi sempre di meno, perché in fondo lo sai, che se ti serve qualcosa, lo puoi anche comprare lì.

Non c’è tristezza, nient’affatto.

Ma soltanto la voglia di restare dentro le mie scarpe ancora un po’, anche se sono consumate dal tempo, dalla strada e dal sole.

Qualche chilometro ancora, prima di cederle a qualcun altro, qualcuno che, perché no, magari sarà nato in un posto piccolo-piccolo.

Massimo Colaci / Contributor

Massimo Colaci