Stefano Gentile

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Come l’amore, la musica e l’amicizia, anche la meccanica è un linguaggio universale. Meno poetico a dirsi, magari, ma altrettanto utile per legare tra loro anime e corpi, soprattutto se quello che ti circonda è nuovo e diverso da quanto provato prima.

Quando papà è andato a giocare nel Pana, l’intera famiglia si è spostata in Grecia, ricominciando tutto da capo, come già era successo a Trieste e a Milano.

Ad Atene, i miei genitori scelsero per me una scuola americana, con studenti da ogni angolo del Pianeta, e con i quali condividevo sia i sogni e le speranze, che i silenzi e le paure. Eravamo poco più che bambini, eppure ancora non ragazzi: il momento in cui cominciare a chiedersi per davvero che cosa vuoi fare da grande.

E, a tal proposito, io non avevo mai avuto dubbi.

Sarei diventato un medico.

Oppure un pilota d’aereo.

Tertium non datur.

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Nel mio albero genealogico, il lato di mamma è sempre stato quello dei “professionisti”, gente da stetoscopio, calcolatrici e documenti importanti, ai quali da piccolo guardavo con profonda ammirazione e deferenza.

C’era il nonno, tanto per cominciare, che di mestiere faceva il medico, esattamente come lo zio, e, ai miei occhi, dentro alle loro grandi valigette di pelle era racchiuso tutto l’ordine del Mondo.

Tutta la virtù e la pulizia.

Tutte le vocazioni e lo studio.

Tutte le carriere e il successo.

Sognavo di averne una soltanto mia, da tenere sottobraccio ovunque andassi.

Lo sognavo al punto che, un giorno, ne presi una vecchia e logora dall’armadio del nonno e la elessi a mia personale ed inviolabile proprietà. Un cassetto privato, in cui il dottore in pectore che ero, avrebbe potuto stipare tutte le sue carte e i suoi fogli, da portare in giro per casa con faccia assai seriosa e aria ancor più trafelata.

Prendevo la cosa con tale passione che, più di una volta, quelli che facevo sparire nella mia valigetta erano dei veri documenti, sfilati dalla pila infinita del nonno, e la cui scomparsa metteva in subbuglio la famiglia, obbligando i presenti a rivoltare la casa pur di recuperare ricette e prescrizioni.

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La sola, unica, alternativa alla medicina era la meccanica.

Bulloni e viti.

Matite e carta millimetrata.

Piani di volo e bussole astronomiche.

Se non fossi finito a vestire il camice bianco, allora sarei diventato un pilota d’aerei, come il fidanzato della zia. Oppure, al massimo, un ingegnere capace di costruirli e di farli funzionare, gli aerei.

Gli aerei come i treni.

I treni come le macchine.

Le macchine come le biciclette.

Gli incastri perfetti di metallo e matematica davano piacere al mio spirito, restituendo ordine ad ogni cosa, che grazie ad un disegno su carta, prendeva vita nella mia mente e nel mio futuro.

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Il lato di papà, invece, era completamente diverso.

A modo suo bellissimo.

Ma diverso.

Così come il nonno materno aveva sempre preteso molto da mia madre, così faceva anche quello paterno, pur dirottando i propri sforzi in una direzione del tutto opposta. Il papà di papà, infatti, era un idraulico e un elettricista, uno di quegli uomini pratici ed efficienti di una volta che sapevano aggiustare tutto.

E anche in fretta.

Abituato a dare una consistenza reale, tangibile e quantificabile al lavoro, era solito dire a mio padre che se voleva dedicarsi allo sport avrebbe dovuto farlo al massimo delle proprie capacità ogni giorno, giustificando così il fatto di averlo privato di due braccia giovani, che in cantiere sarebbero servite eccome.

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Io e Alessandro, quindi, siamo cresciuti convivendo con questo doppio stimolo, e con questa doppia richiesta, che dalle generazioni precedenti è arrivata fino a noi, dopo essere stata raffinata, se non affilata, dal tempo e dagli affari della vita.

Accademia e sport.

Allenamento e studio.

Sui binari di casa Gentile la mediocrità non era affatto contemplata.

Hai preso 7 all’interrogazione? E non potevi prendere 8?”

Hai fatto 20 punti? E non potevi farne 25?”

Una sfida, non un rimprovero, ma non per questo meno difficile da gestire e da comprendere al volo.

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Fino al giorno in cui ci siamo trasferiti in Grecia, non ho avuto alcun dubbio su quale sponda del fiume gentile camminare, nel diventare adulto in fretta, e l’aria di sport che si respirava in casa mi inebriava molto meno di quanto non facessero i progetti ingegneristici e sogni architettonici che proiettavo nel mio quotidiano.

Ad Atene, durante i primi giorni di scuola americana, strinsi amicizia con un bambino sudcoreano che, come me, non sapeva ancora l’inglese, né tanto meno il greco. Pur senza lo straccio di uno strumento per comunicare, iniziammo lo stesso a passare i nostri pomeriggi insieme, uniti soltanto dal nostro amore comune per gli aerei.

Che fossero modellini oppure disegni, poco importava: la meccanica fu la nostra lingua segreta, che ci unì a lungo, stranieri in terra straniera, pronti a farsi scudo con cacciaviti e chiavi inglesi.

I sogni dei bambini, però, hanno una data di scadenza, o almeno ce l’hanno la maggior parte di essi. E quando inizi a crescere, poco alla volta, si dissolvono tutti tranne uno, che come l’abete nel bosco, ha soffocato tutto quel che aveva accanto pur di arrivare fino alla luce del sole e diventare forte davvero.

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Per me, il basket è arrivato relativamente tardi.

Non tanto nella mia vita, visto che era lì da sempre, ma nelle mie convinzioni, e nei miei desideri. È stato proprio il periodo in cui papà giocava al Pana, quello in cui ho iniziato a vedere la bellezza profonda che si cela dietro a questo percorso.

Le migliaia di tifosi sugli spalti.

La vita di spogliatoio, che quando sei all’estero è sempre allargato, e comprende anche le famiglie degli atleti.

L’emozione di costruire qualcosa in campo.

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Il “me dottore” e il “me pilota” hanno iniziato a diventare sempre più piccoli, schiacciati dalla pallacanestro, dalla durezza degli allenamenti che mi imponevo e dalla voglia di diventare un giocatore anch’io.

Come papà.

Eppure entrambi, pur scomparendo col passare del tempo, mi hanno lasciato qualcosa dentro, che ho dovuto imparare a gestire, prima di poterlo utilizzare anche sul parquet.

Faticavo, per esempio, a sopportare gli errori degli altri, e per questo finivo sempre col maledirmi per essermi innamorato di uno sport di squadra, invece che di uno di individuale.

Ero facile al confronto, troppo facile, persino a brutto muso, e solo con la piena maturità ho capito che provare a tirar fuori il meglio dagli altri è parte integrante del mestiere, come imparare a palleggiare di sinistro, o migliorare il tiro.

Il dottore e il pilota, quando mi distraggo, riescono ancora a sussurrarmi all’orecchio, provocando la parte perfettina ed insicura di me, quella che vuole tutto sempre in ordine, come in un progetto ben disegnato.

I calzini giusti, le scarpe giuste, le sensazioni giuste: se manca qualcosa allora il resto crolla, lasciandomi solo con i miei dubbi amletici.

Per fortuna oggi, pur amandoli ancora, il pilota ed il dottore sono ricordi sempre più lontani, e ho imparato ad abbracciare anche l’imprevisto, che quando di mestiere fai lo sport è la sola cosa di cui puoi essere sicuro.

Non ho ancora smesso di sentirmi con l’animo un po’ diviso, un pezzo per ogni sponda del fiume gentile, ma comincio a credere che forse questo non cambierà mai, per nessuno di noi, soprattutto oggi che oltre a nipote, figlio e fratello, sono anche papà.

Stefano Gentile / Contributor

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