Alessandro Petrone

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Di essere al posto giusto al momento giusto, può capitare a chiunque.

Il difficile è capire di esserci.

Per riuscirci, spesso, ti serve il passato.

Il tuo passato.

E più il passato è doloroso e più sarai in grado di aggrapparti a quella sensazione di improvviso ordine, di epifania, di equilibrio, per non lasciarla andare via.

Il tennis è un gioco di specchi deformanti.

Come quelli del luna park.

L’uomo dall’altra parte della rete, ti riflette.

L’allenatore, ti riflette.

La totalità delle persone che incontri sugli aerei, negli alberghi o nelle mense, sono tutte un’immagine riflessa di quel che stai vivendo tu.

Tu, con il tuo borsone, i tuoi biglietti, le tue telefonate transoceaniche.

Alessandro Petrone

Ruanda, Nigeria, Sri Lanka, Panama: la ruota gira, il Pianeta è un mappamondo e se dite un Paese qualsiasi io, molto probabilmente, ci ho giocato.

Il tennis è un vuoto a perdere, almeno fino all’istante in cui non diventi così forte da farlo diventare un biglietto della lotteria.

E, ad essere sinceri, è molto probabile che questo non succeda mai.

Lotteria non nel senso di fortuna.

Il talento cristallino e il lavoro duro devono esserci per forza per arrivare in alto, come vi avrà raccontato chiunque, prima di me.

Lotteria vuol dire incastro di volontà e di sorte.

Di risultati e di salute.

Di fama e di fame.

Di investimenti e di errori.

Persino sforzandomi, non riesco a ripescare ricordi più vecchi di quelli che mi sono creato reggendo in mano una racchetta.

I primi allenamenti, i primi tornei, le prime palline: tutto si incaglia lì.

Che io lo voglia oppure no.

Sono cresciuto a Milano 3, che già dal nome è il perfetto manifesto della mediocrità: un posto pulito, efficiente, ordinato, ma che non vale abbastanza da meritare un nome tutto suo.

I miei genitori erano dei tennisti amatoriali, e visto che tutta la vita extra-scolastica del paese ruotava intorno allo Sporting Club, io avevo finito col viverci dentro.

La piscina, la palestra, il campo da tennis.

Soprattutto, il campo da tennis.

Alessandro Petrone

Come migliaia di persone prima e dopo di me, mi sono innamorato di uno sport, e per inseguirlo, ho iniziato a camminare sul filo, come un equilibrista sospeso tra due palazzi.

È una corda sottile, che unisce sonno e veglia, e che divide il Mondo a metà.

Da un lato la scuola, dall’altro lo sport.

Da un lato i sogni di grandezza, dall’altro la fatica.
Da un lato le aspettative degli altri, dall’altro il ragazzo dello specchio.

Da un lato i soldi, la fama, il successo, le donne.

Dall’altro i dolori, le cadute, i sacrifici, la competizione.

Sotto, niente.

Sotto la corda non c’è mai niente.

Soltanto il vuoto.

Soltanto il precipizio.

La bellezza dello sport si racchiude tutta in questo vicolo cieco.

L’infinito inseguirsi dell’incoscienza che viene richiesta per camminare sul filo e della voglia che hai di guardare in basso.

Una voglia che con il tempo e con l’età si fa sempre più pressante, sempre più esiziale.

Quando cresci, lo sport smette di bastare a sé stesso, e l’adolescente tutto casa, chiesa e campo da tennis che sei stato inizia a interrogarsi anche sul resto.

Inizia a chiedersi del prezzo della solitudine, quello delle bollette.

Inizia a domandarsi del futuro che aspetta, di fronte al fallimento.

Inizia, insomma, a guardare in basso.

A cercare di capire cosa succederà davvero, quando accetterai la prospettiva della tua avvilente normalità.

Il tennis è un investimento rischioso, perché diventare uno tra i migliori 300 atleti al mondo, non è affatto garanzia di guadagnarci qualcosa.

E se vi fermate a pensarci, sono davvero pochi i lavori altrettanto spietati.

Guardi i montepremi messi in palio negli Slam, oppure ti riempi gli occhi con gli endorsement commerciali che hanno messo sul piatto dei grandi campioni del tuo tempo, quelli delle pubblicità.

È facile dimenticarti di tutti quelli che sono dietro di loro.

I professionisti di cui nessuno conosce il nome.

Io ho smesso di giocare tante volte.

Ma alla fine sono soltanto una volta in più di quelle in cui poi ho ripreso la racchetta in mano.

Perché il richiamo del campo è troppo forte.

Perché pensi, anzi perché sai, che la prossima volta gestirai al meglio le cose.

Perché conosci la tua fame.

O perché conosci il dolore di un sogno lasciato a metà, per colpa dei soldi, della debolezza o della rabbia.

Ho amato e odiato il tennis per tantissimo tempo, in costante litigio tra la poesia della disciplina e la durezza dei suoi confini.

Amavo giocare e odiavo perdere.

E odiavo che da quelle sconfitte dipendesse la mia sopravvivenza sportiva.

Quotidianamente.

Senza soluzione di continuità.

Alessandro Petrone

Finché vai a scuola è facile, perché quella è una coperta.

Pensi che sia una seccatura, un male necessario, che ti prosciuga energie e che ti toglie ore che potresti dedicare al tuo perfezionamento tecnico, al perseguimento del grande scopo della tua vita.

Ma non è così.

Poi all’improvviso, per qualcuno prima e per qualcuno poi, la scuola finisce per tutti, e tu resti scoperto, quasi nudo, faccia a faccia con il tuo desiderio più grande.

La libertà è una bestia strana, come l’aria, che ti costringe i polmoni quando non ne hai abbastanza, e come l’acqua, che rischia di farti andare alla deriva quando non ne sai governare le onde.

Elementi vitali, che possono spezzarti ossa e volontà in qualsiasi momento.

E ti ritrovi, come è successo a me, a prendere e lasciare.

Prendere e lasciare.

Ti ritrovi ad iscriverti all’università e poi bramare di tornare in campo, perché sui banchi, adesso, ci stai scomodo.

Ti ritrovi a fare il maestro di tennis per campare, insegnando il gioco a gente che non riesce a reggere neppure la racchetta, con lo scopo di mettere da parte un gruzzoletto.

E riprovarci ancora, senza chiedere più i soldi a casa.

Perché alla banca, che tu sia il numero 500 al Mondo, non interessa granché.

Sono stato al numero 1700 del Mondo, con un solo punto in classifica.

Felice, per essere tornato nel mio elemento.

E sono stato al numero 390, in fase ascendente.

Triste, per il disequilibrio che sentivo nel mio essere.

Ora, tutto è diverso, di giocare ho smesso da un po’, e ho deciso di fare l’allenatore.

E all’improvviso è come se tutto avesse preso un corpo, una direzione.

Come se gli alti e i bassi di una vita spesa ad inseguire un sogno, fossero serviti a farmelo conoscere davvero, molto più di quanto possano fare quelli che l’hanno realizzato al primo colpo.

So quello che voglio.

So quello che cerco in un atleta.

E so cosa posso trasmettere a chi avrà la voglia e la pazienza di ascoltarmi.

Io sono l’uomo al posto giusto e al momento giusto.

Ma senza essere stato quello sbagliato così a lungo, non sarei mai riuscito a rendermene conto.

Alessandro Petrone / Contributor

Alessandro Petrone