Arianna Fontana

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Ho sempre guardato le Olimpiadi in tv, fin da quando ero piccolina.

Chi portava la bandiera italiana, per me, era più di un atleta, era più di un simbolo, era un eroe.

La forza e la costanza.

Oltre il risultato e oltre le aspettative: tra le sue mani reggeva il destino del Paese di fronte al Mondo intero, e io, a prescindere da chi fosse, lo guardavo o la guardavo con ammirazione infinita.

Ben prima di capire “come”, avevo chiaro in testa il “cosa” sarebbe stato il grande scopo della mia vita, l’obiettivo più grande. Il desiderio che guida tutti i pensieri e tutte le azioni.

La bambina che ero voleva i Giochi, l’oro olimpico e la bandiera, da custodire gelosamente e poi consegnare alla sua versione adulta.

Dai cinque anni, fino ai trenta passati, ho sempre saputo di voler arrivare, e non ho mai iniziato una gara senza sentire una voce nella testa ripetermi: “devi vincere”.

Trovatele un altro sport”.

Fu questa la prima cosa che l’allenatore disse a mia mamma, in un giudizio del quale oggi, visto che era ed è tuttora un amico di famiglia, gli rinfacciamo scherzosamente la fretta.

Una frase non troppo diversa da quella che, molti anni e molte medaglie più tardi, con mia grande sorpresa, qualcun altro mi avrebbe ripetuto.

A onor del vero, al mio primo allenatore, posso di sicuro perdonare quell’uscita infelice, perché il giorno in cui ho provato i pattini non ho esattamente messo in mostra il meglio di me.

Erano a rotelle, e neppure in linea, ma di quelle montate a due a due, e nonostante io ci tenessi tantissimo a seguire le orme di mio fratello Alessandro, che pattinava già da un anno, l’inizio fu piuttosto disastroso.

Ricordo persino che mi dissero di spostarmi sull’erba, “che è più semplice”, e c’è meno rischio di farsi male.

Arianna Fontana

Non che una piccola difficoltà potesse impedirmi di fare quel che volevo.

Quello mai.

Ero combattiva e coriacea.

Non diversa da come sono oggi, anche se sotto le mie lame ho fatto molti chilometri più di allora.

Ero una bimba sveglia, sempre in movimento, che una ne pensa e cento ne fa.

Ero una bimba da “casa sull’albero”.

E anche se poi, la nostra, più che una casa erano soltanto quattro assi incrociate, a me piaceva così. Passavo le estati in baita, con mio fratello e i miei cugini, e mi bastava un pizzico di fantasia per trasformare quei pezzi di legno in un veliero dei pirati, o in un rifugio segretissimo, dove nascondere i nostri tesori dalle grinfie degli adulti.

E poi c’era la velocità.

Il mio primo grande amore.

Un qualcosa di inspiegabile e irrefrenabile. È sempre stato lì. Dentro ho sempre saputo di voler essere la più veloce.

In ogni cosa.

Che fosse in bicicletta oppure di corsa, in salita oppure in discesa, io volevo sentire il vento addosso e quella sensazione di leggera instabilità che soltanto accarezzare i tuoi limiti ti sa dare.

Non ho mai saputo farne a meno.

Non riesco neppure oggi.

E, in questo, poco è cambiato rispetto a quando, puntualmente ogni giorno, mi radunavo con i miei compagni di classe al suono dell’ultima campanella per la nostra gara quotidiana.

Cento metri al giorno, a polmoni aperti e con i gomiti affilati, sotto al portone della scuola: l’inizio di tutto e, per certi versi, la sua espressione più pura.

Poi, ho smesso di cadere dai pattini, mi hanno dato quelli con le lame e ho iniziato ad andare forte.

Sono arrivate le prime convocazioni in nazionale quando ancora ero un’adolescente, e così ho capito che quello che avevo tra le mani era un talento importante.

Un’occasione unica.

Da Torino a Pyeongchang: un inseguimento continuo alla grandezza sognata da piccola. Iniziato quasi per gioco e coronato quasi per sollievo.

Con il passare delle stagioni, l’incoscienza degli esordi ha lasciato il passo all’importanza del momento, alla responsabilità del tricolore.

Alle aspettative di tutti, le mie prima di quelle altrui.

Ogni Olimpiade ha portato con sé momenti belli e difficili, e un ricordo che il tempo cambia, addolcendolo sempre, finché in Corea, quattro anni fa, dopo anni che lo inseguivo, è arrivato anche l’oro.

Il mio oro, da mettere in cima a tutte le altre medaglie.

Vincerlo da portabandiera, e stringerlo finalmente in mano, è stato il sollievo più grande, dopo aver investito tutto quello che avevo.

Arianna Fontana

Perché lo short track è uno sport duro, che richiede tanta fatica e regala tanti dolori, che soltanto la passione può ammortizzare.

È sempre freddo nel palazzo, e la sola cosa che può riscaldare il tuo spirito è il desiderio di continuare e di vincere ancora.

Anche quando vivi momenti difficili, in cui non è facile essere un’atleta o essere una donna.

“Tu non vali più nulla”.

Dopo i Giochi del 2018 avevo un enorme bisogno di staccare, e di prendermi del tempo per ricostruire il mio corpo e la mia psiche.

Sapevo che il periodo sabbatico non sarebbe andato oltre i dodici mesi, perché la nuova avventura tecnica con Anthony al timone mi incuriosiva, ed ero certa che mi avrebbe permesso di crescere ancora e di salire di livello.

Forse ho peccato di presunzione nel pensare che tutto quello che avevo raccolto in passato, un passato recentissimo, significasse qualcosa anche quando il braciere olimpico era spento.

Il mio rientro è stato complesso, macchinoso, reso incredibilmente pesante da dinamiche di basso profilo, che mi hanno chiusa in un angolo, quasi nel tentativo di convincermi a mollare.

“Tu sei il passato”

Sì, certo. Ma che passato?

E soprattutto che presente?

Per oltre 15 anni della mia vita ho rappresentato l’Italia e vinto in ogni angolo del pianeta, mettendo anima e corpo al servizio di un intero movimento.

Essermi ritrovata all’improvviso dal lato sbagliato della storia, costretta sulla difensiva, mi ha certamente deluso, ma non ha fatto altro che soffiare sul tizzone della mia passione, con buona pace di chi avrebbe preferito non vedermi allacciare di nuovo dei pattini.

Sono andata all’estero per allenarmi, ho resistito ad allenamenti al limite, che in più di un’occasione hanno messo a repentaglio anche la mia integrità fisica.

Tutto, solo ed esclusivamente, perché so quanto valgo, e perché Pechino 2022, come ogni altra Olimpiade prima di questa, è all’orizzonte che aspetta me.

Ho imparato a isolare la negatività altrui e a proteggere il mio tempo, la qualità della mia vita fuori dal ghiaccio.

Perché quando arriverà qualcuno, uomo o donna che sia, in grado di portare in alto la nostra nazionale io sarò la prima a fargli i complimenti.

Spero che arrivi.

Ma quelli che stanno per iniziare sono ancora i miei Giochi e il presente mi appartiene.

Arianna Fontana / Contributor

Arianna Fontana