Francesca Piccinini

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Ho avuto modo di parlare spesso della mia vita e della mia carriera.
A renderlo possibile è stata la straordinaria continuità dei risultati che ho raccolto in questi due decenni abbondanti di pallavolo vissuta ad altissimi livelli, perché nello sport, che è bellissimo e crudele, sono le vittorie a mantenerti in piedi sulla cresta dell’onda.

Nel provare a mettere in fila i miei pensieri e i miei ricordi oggi non posso che partire dall’ultima gioia in ordine di tempo, una festa di cui sento ancora l’eco nelle orecchie: Berlino e la finale di Champions League, conquistata poche settimane fa.
Voglio ripartire esattamente da qui e andare all’indietro, perché vincere per sette volte nel corso di una carriera la più difficile competizione europea per club non è da tutti, anzi. Sembra piuttosto l’inatteso regalo di un destino benevolo che ha deciso di dare un premio ad ognuna delle mie fatiche. Una per una.

francesca piccinini

© Fabio Cucchetti - Getsport

Sette vittorie per sette momenti indimenticabili.
Sette storie diverse ma dentro le quali trovare la stessa fatica, gli stessi sacrifici e gli stessi acciacchi ogni volta.
Sette polaroid che attraversano vent’anni della mia carriera, fotografando un volley che è cambiato in maniera radicale mentre io lo vivevo restando la stessa ragazza e donna di sempre.

francesca piccinini

© Fabio Cucchetti - Getsport

Sono entrata nel volley delle adulte che ero giusto una ragazzina.
A soli 14 anni ho cominciato a confrontarmi con le professioniste vere, partendo per un lungo viaggio di cui ancora non vedo all’orizzonte gli ultimi chilometri, tutt’altro.
Aver passato 25 anni nello stesso ambiente significa aver preso per mano la pallavolo intera, esser stata presa per mano di rimando da lei, ed aver visto 4 generazioni di atlete e di donne, di allenatrici, di allenatori e di tifosi condividere con me un pezzettino della strada. Il Mondo è cambiato, oggetto e soggetto di una rivoluzione multimediale che ha travolto le persone e le cose. Altrettanto hanno fatto lo sport e il modo di viverlo dentro allo spogliatoio.


La pallavolo oggi è principalmente velocità e potenza, che hanno aperto orizzonti nuovi ad un gioco che prima si basava principalmente sulla cura della tecnica. Anche se preferisco il volley moderno, che è più dinamico ed elettrico, devo riconoscere che è stata proprio la solidità della tecnica individuale imparata da piccola a sorreggermi in campo, permettendomi di giocare così a lungo. La potenza è nulla senza il controllo, come recitava una pubblicità di tanti anni fa.


Anche lo spogliatoio si è trasformato, diventando con il passare degli anni un po’ meno una seconda casa e un po’ di più un ambiente di lavoro. Oggi a farla da padrone sono i cellulari e le cuffie grosse che coprono le orecchie isolando dal resto della stanza, mentre una volta la vita di una squadra ruotava tutta dentro lì, al sicuro delle quattro mura più sacre di tutte.
Solo la tensione del pre-partita è rimasta sempre invariata perché nulla riesce a pareggiare quel silenzio adrenalinico che attraversa tutte le giocatrici nei minuti immediatamente precedenti a scendere in campo.
Tutto può cambiare in fin dei conti ma la partita resta la partita.


Aver cominciato prestissimo a calpestare i palcoscenici del volley professionistico ha significato per tanti anni essere la più piccolina nello spogliatoio. A 20 - 22 anni potevo già mettere sul piatto della mia bilancia personale un gran numero di partite giocate eppure quando entravo in spogliatoio la carta d’identità mi ricordava che ero ancora comunque più giovane di tutte le altre.
Cercavo, come una spugna, di assorbire tutti gli insegnamenti delle veterane della squadra, sia quelli da riportare in campo che quelli da far funzionare fuori dal palazzetto.


Ricordo che la sera, ogni tanto, capitava di tirar tardi, come succede in tutte le squadre e in tutti gli ambienti di lavoro del pianeta. A cena, a ballare, magari per una semplice uscita di gruppo. A prescindere dall’orario del rientro, che fosse prima di mezzanotte, come Cenerentola, o alle prime luci dell’alba, io il giorno seguente ero sempre fresca e scattante in campo, come se mi fosse bastata un’ora nel letto (o magari solo un minuto) per fare una ricarica completa della mia batteria.

Le veterane mi guardavano sorridendo sornione: “vedrai alla nostra età!”

Poi la loro età, questa età, è arrivata anche per me e io continuo ad essere la più attiva e allegra all’allenamento del mattino anche se la serata precedente l’ho passata a divertirmi.

Sono io oggi, veterana, a trascinare le giovani esattamente come la giovane me trascinava le veterane di tanti anni fa.

È la mia natura che non cambia mai questa. Unico scoglio sempre uguale a sé stesso in un mare che modifica costantemente le sue onde, le sue maree, i suoi bagnanti sulla riva. Penso che anche a sessant’anni sarò esattamente così, con un’energia contagiosa che mi esplode dentro e la voglia di fare sempre stampata in fronte, ben visibile a tutte le altre persone che mi stanno attorno.


Credo che parte di questa forza che sento sgorgare inesauribile ogni giorno venga dallo sforzo iniziale che mi è stato richiesto per sopravvivere nel mondo del professionismo. Avere 14 o 16 anni e cercare di competere ai massimi livelli in uno sport come il volley mi ha richiesto di portare subito il mio motore a giri altissimi pur di restare a galla.
Andare subito al massimo per non perdere terreno da chi aveva il doppio dei miei anni.
Quel grado di attività e di energia mi è come rimasto addosso, diventando parte inscindibile del mio modo di intendere il lavoro e di essere un’atleta e una donna.

Ovviamente il passare del tempo e l’accumularsi delle stagioni ha cambiato la maniera in cui questa grande forza passionale viene incanalata, soprattutto nell’approccio ad una partita importante e alle ore di avvicinamento ad essa.

francesca piccinini

La mia prima Champions l’ho vinta nel 2000, giocavo a Bergamo, e di anni ne avevo più o meno la metà di quelli che ho adesso. La Final Four si tenne a Bursa, in Turchia, e in finale abbiamo battuto le ragazze dell’Uralocka, uno squadrone russo di grande tradizione che prima degli anni 2000 era riuscito a portarsi a casa la bellezza di 8 Coppe dei Campioni.
Mi ricordo distintamente la tensione che ho provato nelle ore precedenti alla partita, stretta come un nodo allo stomaco.

In quegli anni ero un’atleta molto emotiva e tutta la spensieratezza delle ventenni spariva nell’incombere di una partita importante. Diventavo nervosa, agitata.
Incapace di godere al massimo del divertimento che si può vivere durante giornate del genere.
Per una giocatrice giovane è come se la sola cosa che contasse davvero fosse la partita stessa, come se vedesse, guardando in avanti, soltanto l’orario d’inizio della prossima sfida importante. Nient’altro oltre a quello, nulla prima e nulla dopo. Senza riuscire a ricordare che al termine di quella non ci sarà un grande vuoto, ma la vita che continua simile a quella del giorno precedente, fatta eccezione per una vittoria o una sconfitta in più.


Da giovane sentivo l’assolutezza della partita, la sua totalizzante pienezza che non ti permette di dormire una volta che si è conclusa, perché la rivivi dentro la tua testa dieci, cento volte, rigiocando dal tuo letto che fissa il soffitto ogni palla che hai sbagliato in campo.

Oggi questa stessa, incredibile, girandola di sensazioni fortissime, e a volte paralizzanti, mi succede di vederla attraversare gli occhi e i cuori delle mie compagne più giovani.

Quest’anno, per esempio, prima della finale di Berlino, ho trovato in alcune una copia della mia tensione per le partite pesanti del passato e ho cercato di trasmettere ad ognuna di loro la capacità di andare oltre a quella.
La voglia di provare a godere appieno della bellezza di un momento storico, vivendolo tutto per intero.

Incontrare di nuovo Conegliano in finale, dopo aver perso 3 a 0 la serie per lo scudetto, ha reso i 10 giorni precedenti all’assegnazione della Coppa una ricerca continua e affannosa dell’equilibrio perduto.
Ha richiesto ad ogni giocatrice di scavare nel barile delle proprie motivazioni, giù in fondo, per trovare la forza di resettare tutto, di smaltire le tossine accumulate e di aggrapparsi a nuove certezze antiche.

francesca piccinini

© Fabio Cucchetti - Getsport

Nuove, perché le hai ricostruite da zero.
Antiche, perché sono le stesse di sempre che ti servono per competere: una comunicazione positiva, l’unità d’intenti e la leggerezza per provare le giocate difficili.

Nel corso degli anni che dividono la mia prima Champions vinta e quest’ultima con Novara ho imparato a gestire la pressione e l’ansia da prestazione, senza per questo mai smettere di guardarmi dentro per diventare una giocatrice più completa.

Io ho vinto tanto perché ho spinto tanto e perché ci ho creduto tanto.
Senza compromessi.


Rispetto al passato, queste esperienze ora riesco a godermele compiutamente, fino in fondo, perché oggi so di non avere niente da dimostrare a nessuno ma continuo a sentire di avere tantissimo da dimostrare a me stessa.
In questo modo sono in grado di esprimere il massimo di quello che ho da dare in campo sempre, in ogni situazione, senza per questo dovermi perdere la bellezza di quello che circonda la partita in sé per sé.

Questa consapevolezza vale per ogni cosa e trasforma tutti i traguardi raggiunti nel punto di partenza per un’avventura nuova.
La mia Coppa dei Campioni numero sei ne è un magnifico esempio. L’ho vinta con Casalmaggiore nel 2016. Il livello della Final Four di Montichiari era davvero altissimo e noi siamo arrivate a giocarci la finale contro le turche del VakifBank di Istanbul dopo una cavalcata esaltante. Quello che avevamo di fronte era uno squadrone impressionante, capace di vincere due titoli europei negli anni precedenti.

francesca piccinini

Nonostante fossimo, tra le quattro, la squadra meno accredita per la vittoria finale vincemmo quella finale tre a zero e in mezzo a tante campionesse mi sono guadagnata il titolo di MVP.
A 37 anni.

francesca piccinini

Mentre la gente si chiedeva, con fare un po’ retorico: “beh ma adesso questa smetterà?” io stavo già guardando già avanti, pur felice per il presente.
E se mi avessero detto quella sera che tre anni dopo ne avrei alzata un’altra avrei sicuramente risposto: “3 anni? Perché dovrei aspettare così tanto?”


La mia passione per questo straordinario gioco è rimasta inalterata per oltre 25 anni, perché altrimenti non sarei mai riuscita a raccogliere così tanto.
Ma qualunque viandante umile da ogni viaggio si porta a casa qualcosa che lo renda migliore ed io penso di essere riuscita a farlo.

In questi anni di avventura è come se fosse cambiata la colonna sonora della mia pallavolo.

Prima la partita era come una serata in discoteca, passata sotto una delle casse ad ascoltare musica elettronica a tutto volume. Già quando hai parcheggiato l’auto, fuori dal locale, si sentono i bassi picchiare in lontananza e quando arrivi in pista le note sono così forti da impedirti di parlare con le altre persone. È bello, è adrenalinico ma quando la serata finisce e torni a casa, nei timpani, per ore, ti continuano a rimbombare i ritmi della notte, impedendoti di dormire e di ricollegare i fili dei tuoi pensieri.


Adesso invece per me la partita è come un concerto di musica classica, che è anche ciò che ascolto nelle cuffie nel riscaldamento prima di ogni gara. La musica classica richiede grande attenzione per essere gustata fino in fondo, capita, non è un affare per spettatori distratti. Ma allo stesso tempo è concepita con un ingresso ed un’uscita, un crescendo e uno spegnersi, che danno al pezzo una struttura perfetta e definita, fatta di momenti frizzanti e dinamici e di momenti lenti e colmi di tensione.

Il mio volley oggi è così.

Francesca Piccinini / Contributor

Francesca Piccinini