Eseosa Fostine Desalu

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Come si chiamava il tuo bisnonno?”
 

Correvo come un matto tra i banchi di scuola, interrogando i miei compagni di classe con questa semplice domanda: “come si chiamava il tuo bisnonno?”

Per quanto fossi piccolo mi era già chiaro che, dentro a tutte le non-risposte che raccoglievo, ci fosse un pezzetto di verità.

Nessuno sapeva i nomi dei propri antenati.

I genitori, i nonni e poi basta: tutto quello che c’era prima caduto nel dimenticatoio.

Mi chiedevo il perché.

Perché nasciamo, facciamo figli e poi moriamo se nessuno più in là dei nipoti si ricorderà del nostro nome?

A scuola mi appassionavo alle storie degli eroi greci, eterni e sempre uguali a loro stessi. A casa guardavo i film di fantascienza, scolpiti nella memoria per le gesta di personaggi senza tempo, ed io sognavo già di essere ricordato anche tra 100 anni, per non passare sulla Terra senza lasciare un segno mio.

Non ero una specie di bambino-filosofo, che passa le ore seduto da solo. Ero comunque un gran casinista e un birichino, a cui, a volte, andava messa una bella museruola. Ma la domanda, spesso, ritornava.

E quando ritornava, era il motore di tutte le mie paure.

Non mi interessava diventare ricco.

Non mi interessava essere bello, oppure famoso.

Volevo soltanto che il mio nome sopravvivesse alle mie ossa e alla mia carne, nella memoria degli altri, per merito di un qualcosa che valesse la pena essere ricordato e raccontato con orgoglio.

Una persona dimenticata dalla società che vuol farsi ricordare in eterno.

Contrappasso dantesco.

Il desiderio di dare un peso al nome che mi porto appresso, perché chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane, e dell’esercito condotto dagli invisibili ti accorgi soltanto quando ormai bussa alla porta d’ingresso.

Eseosa Fostine Desalu

Mamma non sapeva la lingua, ed io ne vedevo i sacrifici. Li capivo.

Volevo che la gente riconoscesse il mio talento, volevo che servisse a renderla orgogliosa, per farle capire che per quanto potesse sembrarle poco, quello che mi dava invece era tantissimo, e sarebbe bastato per fare di me una persona da ricordare.

Crescere senza un padre è stato difficile, ma lo è stato più per lei che per me, che avrebbe voluto offrirmi tutto prima ancora che io lo chiedessi.

Sapevo che ne soffriva.

È la mamma quella! Certe cose le senti.

È un legame che non spiega.

Per fortuna non eravamo soli, c’erano anche i nonni adottivi, o almeno io è così che li chiamo. Due persone buone, che hanno guardato le spalle ad entrambi e che mi hanno aiutato quando avevo bisogno: dalle ripetizioni di matematica, che “non sarà mai il mio mestiere”, ai passaggi per gli allenamenti.

Sono diventati la nostra famiglia e ancora oggi, quando devo sfogare un po’ di tensione o un po’ di rabbia, mi siedo alla batteria e, come mi ha insegnato il nonno, faccio tremare i muri.

Musica a parte, durante le elementari, i propositi per farmi ricordare in eterno, avevano bisogno di una bella accelerata, e anche se la mamma avrebbe preferito vedermi diventare avvocato, fu subito chiaro ad entrambi che lo sport sarebbe stata l’occasione migliore.

Eseosa Fostine Desalu

Prima mi portarono a provare con il calcio, in fin dei conti siamo pur sempre in Italia. Ero in seconda, e di quel gioco con la palla, io, non ero troppo convinto.

Sono durato 3 mesi, e una sola partita, della quale conservo una gran memoria triste.

Dopo settimane di fatica e allenamento non mi fecero giocare neppure un minuto, neanche uno, e per quanto quella fosse solo la prima, dubitavo che fosse il modo giusto per iniziare il cammino verso l’immortalità.

Quindi, ho piantato lì. E fino alle medie non mi sono più avvicinato allo sport, preferendogli l’oratorio, ovviamente Dragon Ball e i pomeriggi passati a giocare alla play.

Durante gli incontri tra le scuole, l’insegnante di ginnastica provava sempre a trascinarmi sul campo d’atletica per la quale pare che avessi un talento naturale.

Non ne ero affatto convinto, e mi limitavo a fare qualche garetta qua e là, quelle che non richiedevano troppa fatica, soddisfatto di vincerla e di portare a casa una medaglia da mettere sul comodino.

Non avevo passione per la corsa, né mai avrei pensato che sarebbe potuta diventare il mio lavoro, ma finché aspettavo di scoprire che cosa mi avrebbe fatto ricordare da tutti anche tra cent’anni, vincere le provinciali era un buon passatempo.

Alle medie ero nettamente più forte degli altri, e mi presentavo alle competizioni locali certo di vincerle e felice di fartelo notare. Non che fossi uno sbruffone, anzi, ero un ragazzo timido che stava sempre sulle sue, ma arrivavo in pista mentre gli avversari si stavano preparando alla gara, e neppure mi scaldavo, sicuro che una volta messi i piedi sul blocco sarei arrivato in fondo prima di tutti. E funzionava.

Pesce grosso in una pozzanghera piuttosto piccola.

Poi ho partecipato ai miei primi campionati regionali.

Non gli Assoluti, non gli Europei, non i Mondiali.

Ma i regionali.

C’ero io, c’erano gli altri ragazzi promettenti della Lombardia, e nulla più.

Arrivai sesto, che voleva anche dire ultimo, e sentii un tale dispiacere, una tale umiliazione, da promettere a me stesso che non sarebbe successo mai più.

È stato il punto di svolta, perché ho iniziato a investire tutto il mio tempo e tutte le mie forze nell’atletica, realizzando che, forse, avrei anche potuto ottenerne qualcosa di prezioso in cambio. Non subito magari. Ma qualcosa per me c’era, in fondo a quella curva.

Qualche anno più tardi, nel 2008, mi sono qualificato per i primi Campionati Italiani della mia vita, allo stadio Olimpico, che è lo stadio di Berruti, e che anche nel vuoto cosmico della sessione mattutina impone tutta l’ombra della Storia su chi varca i suoi cancelli.

C’era Andrew Howe, il mio idolo dell’epoca, con il quale mi sentivo legato da un filo invisibile, che avrebbe di certo capito anche lui. Entrambi duecentisti, entrambi batteristi: pensavo che fosse destino che diventassimo amici.

Ricordo la fila infinita di ragazzi e ragazze che volevano il suo autografo, sotto al sole battente, e ricordo di esserne uscito pensando che “tanto divento un campione, e lo rivedo di sicuro.”

E anche se mi ci sarebbero voluti 4 anni per recuperare finalmente l’ambito trofeo cartaceo, quel primo assaggio di atletica vera bastò a farmene innamorare sul serio.

Da allora non mi sono più voltato indietro.

Eseosa Fostine Desalu

Il percorso, dall’esordio di Roma all’oro di Tokyo, è stato molto, molto, lungo e non c’è alcun dubbio che ci siano stati più bassi che alti nel corso degli anni.

Infortuni e sconfitte, dubbi e ripensamenti, in un ciclo che si è chiuso soltanto quando ci hanno messo al collo l’oro della 4x100.

È stato un viaggio appagante, pieno di emozioni, coronato da una cosa stratosferica, che solo il tempo mi aiuterà a mettere in prospettiva.

Più di un oro olimpico non c’è nulla in assoluto.

Ma c’è tanto per me.

Perché tra gli Europei, i Mondiali e Parigi, nello sport esiste sempre un domani, nel quale sogno una medaglia tutta mia, e di scendere sotto al muro invisibile dei venti secondi sui duecento, che sono la mia gara.

È strano essere felice e allo stesso tempo non appagato, ma immagino che sia così che si sentano i grandi campioni universali, da Bolt alla Pellegrini, quelli che non smettono mai di guardare avanti e che sanno meglio di tutti gli altri che a cascare dal piedistallo ci si fanno i bernoccoli più duri.

Tutti hanno sempre qualcosa da dire.

Lo sport è così.

La gente è così.

Ma io sono io, e la persona che sono non vale oggi più di quanto valesse il il 5 agosto, con la non-sottile differenza di aver scritto il mio nome sull’albo d’oro più importante che ci sia.

100 metri per 100 anni: non so dire se ciò che abbiamo fatto basterà per essere ricordato tra un secolo, o per far sopravvivere il ricordo oltre i miei figli e i miei nipoti, ma di sicuro è un passo fatto nella direzione giusta.

Ancora non mi interessa diventare ricco.

Non mi interessa essere bello, oppure famoso.

Ma ho capito che la mia strada è l’atletica, che chi ha i denti può imparare a fare il pane, e che tra un giornale e un libro di storia c’è una gran bella differenza.

Perché uno finisce nel cestino, l’altro invece no.

Eseosa Fostine Desalu / Contributor

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