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Ghemon

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C’è un fenomeno naturale, tra i più affascinanti in assoluto, che dimostra come l’impatto delle interazioni tra piante ed animali sia tale in certi casi da modificarne persino il corredo genetico: si chiama coevoluzione.

È il risultato di una collaborazione talmente stretta tra due specie da generare nel tempo uno sviluppo congiunto, benefico per entrambe.

Alcuni fiori hanno per esempio sviluppato dei pistilli di una forma congeniale a determinati insetti e non ad altri, al fine di ottimizzare le proprie risorse ed assicurarsi una migliore diffusione.

Alcuni insetti hanno il corpo caricato elettricamente e questo ha spinto molte specie floreali a sviluppare la capacità di caricare propri petali, comunicando costantemente con l’insetto la propria disponibilità, o meno all’impollinazione.

In barba ai creazionisti il mondo animale e quello vegetale sono in costante interazione, un rapporto così profondo da essere in grado di riscrivere in continuazione non solo le loro abitudini ma persino il patrimonio genetico.

 

Impossibile scindere i due mondi.

Impossibile decifrare chi ha influito su cosa.

Solo la nascita una nuova genetica, un nuovo modo di comunicare.

Una continua sovrascrittura del presente, in loop.

 

Quando penso ai due mondi nei quali lascio quotidianamente le impronte dei mie passi, la musica e lo sport, non riesco a non vederli come figli di una coevoluzione.

 


Se ne stava lì seduto davanti a me il grande Clyde.

Lo chiamavano e lo chiamano tuttora così perché portava il cappello come Clyde il malandrino, quello di Bonnie e Clyde, interpretato da Warren Beatty in Gangster Story.

Anno di grazia 1967.

Storia del cinema, preistoria del gioco.

Comunque dicevo Walt Clyde Frazier mi guardava intensamente mentre mi parlava.

Pochi capelli rimasti in fronte, un pizzetto più che importante e gli occhi piccoli, infossati ma pieni d’espressione.

Uno stile inconfondibile.

-You know- mi diceva -distinguersi è importante!-

 

Basta guardare i suoi outfit di oggi come di quando giocava per capire che non lo dice tanto per dire.

-Oggi i giocatori si fanno vestire dagli stilisti oppure si mettono addosso tutti la stessa roba, l’unico in cui mi rivedo, che mi sembra mostrare sempre un genuino lato eccentrico è Russell (Westbrook)-

 

La scena è di due anni fa, mi trovavo a New York, ombelico del mondo per la scena musicale, ombelico del mondo per la scena sportiva.

Okay: ombelico del Mondo e basta.

Mi trovavo lì per un impegno lavorativo che coinvolgeva una produzione Netflix sul mondo del rap.

Ma per uno con il mio background sportivo in generale, e cestistico in particolare, la Grande Mela vuol dire per forza anche palla a spicchi.

La nascita dell’hip hop negli States è coincisa con lo sviluppo di un determinato modo di concepire il vestiario sportivo. In quegli anni la Puma lanciava infatti le primissime signature shoes della storia del basket: le Clyde, per l’appunto.

Non poteva che essere lui, con il suo stile unico, metropolitano, fieramente eccentrico ad inaugurare un legame che avrebbe finito con il fondere due culture in una cultura sola.

Puma e poi Converse, poi Adidas, Nike e finalmente le Jordan.

Parlava di questo Clyde, con disarmante lucidità, in direzione sempre ostinata e contraria: -oggi la situazione si è ribaltata su sé stessa, i giocatori si vestono da rapper!-

Sono due aspetti inscindibili, effetto e causa uno dell’altro e viceversa e ancora.

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Lo sport è parte di me quanto lo è la musica.

Prima passione, il calcio.

Ci sono nato con il pallone tra i piedi.

Erano gli anni ’80 e la mia Irpinia era uscita devastata, azzerata dal terremoto.

Erano gli anni dell’Avellino, la squadra della mia città, in serie A, un periodo dove il campionato era un posto magico, popolato dai campioni che ancora erano i campioni della gente: Maradona, Falcao.

Poche squadre provinciali del sud sopravvivevano in quel campionato dominato dagli squadroni del nord, e per noi veder i lupi lassù era un vanto, un orgoglio.

Quando io ero piccolo mio padre era ancora molto giovane e mi portava spesso allo stadio.

Ricordo una partita, secondo me contro l’Ascoli ma non ci metterei la mano sul fuoco, probabilmente il primo gol che io abbia mai visto live.

Gol dell’Avellino e lo stadio esplode, io scatto in piedi come tutto il resto dei presenti, ma non so bene cosa debba fare un tifoso in un’occasione del genere!

Mio padre mi guarda si apre in un sorriso calmo e, anche se adesso dice di non ricordarselo, mi dice:

ma vuoi urlare? Devi gridare: GOL!

Ed è così che ho imparato ad esultare.

 

Da bambino pieno di curiosità ho fatto un po’ tutti gli sport: karatè, volley, nuoto, tennis.

Ma il mio amore, quello che fa i giri immensi e torna sempre, è stata fin da subito la pallacanestro.

Mia mamma mi ci ha portato prestissimo, durante i primi anni delle elementari: non so perché ma i genitori credono che far giocare a basket i propri figli li renda più alti: suggestioni!

Un inizio fortuito, qualche parente faceva parte dello staff della Scandone, che ai tempi era nelle minors, ma scintilla scattata immediatamente.

La casualità gioca sempre un ruolo predominante nelle questioni di cuore.


Quando sei un bambino ciò che ti piace è il gioco, il puro e semplice gioco dietro ad uno sport, ma l’avvento degli anni ’90 ha mostrato, a me come ad altri milioni di persone, come il basket potesse essere molto più del gioco della pallacanestro.

Italia 1 faceva vedere l’NBA, commentata da Dan Peterson, è stato l’inizio di un’ascesa pazzesca alla quale ho assistito dalla primissima fila.

Era come quando da bimbo guardavo il wrestling, quello che prima era solo un gioco era diventato uno spettacolo!

Puro Entertaiment!

Non a caso mi sono subito invaghito del più grande timoniere che questo spettacolo potesse esibire: Magic!

Il cerimoniere perfetto per essere il portabandiera di uno show.

Poi nel corso degli anni sarebbe iniziata l’era di Jordan, mi ricordo l’avvento di Tele+ e la testa che feci a mio padre per abbonarci e poter vedere quante più partite possibile.

NBA action su Telemontecarlo.

 

Il mio primo paio di Nike, accompagnato da mio zio che era stato calciatore negli anni ’70 e conosceva i negozi di articoli sportivi come nessun’altro in zona.

Quelle fantastiche Nike Force bianche sarebbero durate molto, molto meno di quanto mi sarebbe piaciuto durassero.

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Alle superiori la mia anima ha iniziato a conoscersi, a delimitare i suoi confini, è nato il mio rapporto viscerale con la musica rap e ho iniziato a frequentare attivamente il palazzetto della Scandone.

Era la mia musica, era la mia squadra.

Un ambiente magnifico, coinvolgente, famigliare eppure dinamico, quello che vedevo al palazzo.

Aggettivi che potrei usare per descrivere i primi pezzi rap che mi hanno appassionato.

Continuavo a giocare nelle squadre della città, per la Acsi Avellino in particolare, ed ormai iniziavamo ad essere grandicelli e quindi venivamo trattati quasi come adulti.

Se sbagli vieni punito.

 

Se sbagli corri.

Una grande metafora di vita.

Oggi, che a basket riesco a giocare solo ogni tanto tra amici, rivedo molto di quella disciplina nel mio lavoro, ritrovo la cura dei dettagli, l’applicazione maniacale, la resilienza.

Tutti elementi che servono per migliorare, o per creare.

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Ad Avellino lo stadio ed il palazzetto del basket sono uno di fronte all’altro ed era normale per me considerare la doppietta come il normale sviluppo della domenica pomeriggio.

Nessun dualismo.

Solo amore per il cuore della faccenda: lo sport!

 

Il quel periodo la serie A di basket era qualcosa di spaziale: il derby di Bologna, la Benetton a Treviso e anche la Scandone.

Già: la mia Scandone che seguivo dagli anni della b2.

La promozione nella massima serie era stata un momento di orgoglio cittadino senza precedenti.

Dopo una roccambolesca salvezza l’anno prima, l’Avellino di coach Dalmonte si giocava la serie A a Jesi.

Siamo partiti in macchina,io, mio padre e il mio miglior amico dai tempi dell’Acsi, Gigi.

3 secondi alla fine.

+2 Jesi.

Palla a Mastroianni, il nostro play, che la passa a Capone che da metà campo scaglia un dardo-infuocato in stile video game.

Ve lo ricordate NBA Jam?

Ecco così.

+1 Avellino e serie A.

 

Sono emozioni che non dimenticherò mai.

E potete anche darmi del pazzo ma per me valgono quanto aver visto le Finals 2015 a Cleveland o quanto aver guardato Steph Curry da un centimetro di distanza grazie a dei Pass speciali.

L’amore è un gioco senza giudici!

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Il ricordo forse più dolce che ho sul basket mi riporta indietro, nuovamente al liceo. La scuola aveva da poco rifatto la palestra, che era fantascientifica rispetto alle altre palestre-di-scuola-superiore.

 

Esco dalla classe per andare in bagno.

Non ci sarei più tornato in aula.

 

Durante il tragitto sono stato intercettato da un mio compagno e portato di peso (o quasi) in palestra.

E lì ho trovato Abbio, Ginobili e Jaric che facevano un po’ di tiro, visto che il palazzetto della Scandone era occupato.

Roba da stropicciarsi gli occhi.

Ho ancora i loro autografi, persi chissà dove nella casa dei miei.

 

Questo lo sport, come la musica, deve fare: mettere in rima i gesti di ogni giorno, dargli una forma elegante, espressiva, rendendoli uno spettacolo per gli occhi e per l’anima.

Più sono universali e più rimarranno impressi nel tempo.

 

Come dicevo all’inizio queste sono per me molto più che due facce della stessa medaglia, sono il frutto di un legame inscindibile, che cresce e si diffonde come un’epidemia buona.

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Molto spesso mi chiedono di che genere sia la mia musica: non è più solo hip hop, non è solo R&B, non è propriamente soul.

Ma a cosa mi servirebbe metterci un’etichetta sopra se tutte queste nature vivono contemporanemente nei miei pezzi, muoiono e rinascono ciclicamente nei miei testi?

A nulla.

Un’etichetta lo priverebbe solo di un pizzico di magia.

E altrettanto farebbe con lo sport.

Amo il basket, ma sono nato con il pallone da calcio tra i piedi, seguo il tennis con il cuore in gola, soprattutto quando gioca la Errani e guardo il 6 Nazioni di rugby.

Mi siedo sul divano con mio padre quando ci sono le nazionali maschili e femminili del volley.

E ad ogni sport, come ad ogni nota, chiedo solo di continuare ad emozionarmi, ad ispirarmi, e perché no a cambiarmi e definirmi.

 

Io sono un curioso, non solo nello sport e nella musica, proprio in generale e nella vita, ad essere curiosi ed a provare a spiare il “retro” delle cose si finisce con il vedere connessioni magiche, influenze costanti, correnti di cambiamento.

 

In barba ai creazionisti.

Ghemon / Contributor

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