Marta Pagnini

Marta Pagnini

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Mi faceva un piccolo cenno,
portandosi il dito davanti alla bocca:

sssht, guarda!

Sul tavolo riponeva sempre un piatto da minestra ricolmo di acqua.

Poi prendeva un cucchiaio, uno di quelli grossi e ci versava dentro dell'olio d'oliva.

Con gesti calmi e misurati faceva il segno della croce, per ben tre volte.

Tre a me, tre al piatto.

Tre a qualunque cosa fosse in cucina.

Dopodiché mormorava una preghiera, tra sé e sé, con fare misterioso.

E per quanto provassi ad avvicinare l'orecchio non riuscivo mai a capirne le parole esatte.

sssht, aspetta!

mi diceva mentre mi allontanava con finto rimprovero ma con gli occhi furbi

è una preghiera segreta, la si può imparare solo la notte del 31 dicembre

Marta Pagnini

© Ilaria Brugnotti


Sospetto lo dicesse solo per mettermi alla prova, per vedere se avrei mai preferito fare un Capodanno con lei piuttosto che con le amiche a ballare.

Finita la litania, che non ho imparato mai, intingeva solennemente il dito nell'olio e lasciava che alcune gocce ricascassero dentro il piatto dall'alto.

se la goccia si ferma lì, bella intera in mezzo all'acqua allora va tutto bene, ma se la goccia invece nell'impatto si apre, sparpagliandosi tutta in giro, allora, tesoro mio, hai il malocchio!

Per ogni cosa che andava storta a me: una gara, un esame, un raffreddore o una litigata con le mie amiche, la nonna era sempre sicura.

La diagnosi era la stessa.

Ogni santa volta: malocchio.

Mi convocava in fretta e furia a casa sua, con un affettuoso e finto senso d'urgenza, e controllava subito se il test ci confermava i suoi terribili dubbi o meno.

Lo facevamo sempre due volte, gettando via via i residui tra un tentativo e l'altro, rigorosamente usando lo sciacquone, così il sortilegio se ne andava via del tutto.

Il primo test era sempre positivo, il duro responso: malocchio.

Ogni santa volta.

Il secondo invece sempre negativo, la nonna me ne aveva liberato.

Ogni santa volta.

Marta Pagnini

I miei genitori sono due avvocati e si sa che la vita dell'avvocato è frenetica e piena di cose da fare, per cui spesso durante la mia infanzia venivo affidata alle cure dei nonni materni.

Accade a tanti bambini.

I nonni hanno un sapere più profondo e lo usano in maniera più paziente rispetto ai genitori.

Perché loro mamma e papà lo sono già stati in passato e lo sanno, lo sanno con certezza, che le cose andranno bene.

Il nonno sa che il nipote troverà il suo spazio nel Mondo e, forte di questa grande verità acquisita, riesce ad andarci in sintonia profonda.

Lo lascia sbagliare, lo asseconda, a volte aspetta che impari da solo senza la fretta di direzionarlo di quà o di là.

Non riflette su di lui i propri sogni del passato, perché tutto ciò che ancora sogna un nonno è vedere il nipote sorridere e tutto torna, quindi, in un cerchio perfetto.

Nonna Maria era una donna eccezionale, forse lo direbbe chiunque parlando della propria, di nonna, e allora ben venga che lo si faccia, che ognuno conservi e protegga dentro di sé l'unicità di chi è programmato biologicamente per amarti così intensamente come fanno loro.

Degli anni da bambina finisce poi che ti ricordi poche cose, che tendono anche a diminuire nel tempo.

I ricordi lasciano spazio ai racconti, fino al punto in cui la differenza tra realtà e fantasia non la percepisci nemmeno più.

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Io ricordo più di ogni altra cosa le nostre straordinarie abitudini.

Mi ricordo le sue lasagne in brodo, sì ho detto lasagne in brodo, un piatto tipico del Molise.

Mi ricordo di quando ci mettevamo in cucina insieme a preparare le conserve per l'inverno.

Mi ricordo che la mia gita preferita era quella a Trevalle perché si andava giù al fiume, si faceva picnic e si scrivevano tanti nuovi avventurosi capitoli ogni volta.

Come quella volta che abbiamo fatto il bagno, o come quella volta che abbiamo visto una volpe o come quella volta che pioveva.

Come quella volta che.

Cantavamo.

Cantavamo sempre io e la nonna.

Celentano o Morandi, in macchina, sotto l'occhio del nonno, che da vero teatrante si fingeva disperato per le nostre esibizioni, per i nostri duetti.

Ma il meglio lo davamo sempre quando passavamo al di qua della barricata e da semplici interpreti ci trasformavamo in grandi compositrici: capolavori della musica leggera.

La canzone sul supermercato.

Quella sulla passeggiata.

Quella sul nonno.

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Il mio sport è sempre stato logorante ed esigente, fin dalla tenerissima età.

Passavo le ore in palestra a provare gli esercizi e fino al giorno in cui non mi sono trasferita lontana da casa la figura rassicurante della nonna è sempre stata lì sugli spalti.

Gambe composte, sguardo fiero ma incredibilmente discreto.

Quell'eleganza naturale delle donne di una volta.

Di tutte le donne di una volta.

Mi guardava per ore ed ore senza mai perdere la scintilla negli occhi, senza mai smettere di meravigliarsi per la sua creaturina.

Il nonno invece, aspettava in macchina, fedele alla sua radiolina, alle partite di calcio. Era uno di quei nonni fintamente burberi, uno di quelli che fanno paura alle amichette, perché parla poco e brontola spesso.

Ma aveva un cuore enorme e le rare volte che parlava era capace di farsi ascoltare da tutti, indistintamente.

O di far ridere tutti, indistintamente.

Mia nonna riusciva a mostrarsi coinvolta nelle mie cose senza essere mai invadente; mi supportava senza spingermi.

Giocava con me, con le mie passioni.

Ascoltava le mie disamine con tutta l'attenzione del mondo, come se fossero le cose più importanti della sua giornata.

Chissà forse lo erano.

Ma riusciva anche a trasformare tutto in qualcosa di leggero, che fosse solo nostro.

Il suo desiderio di essere presente per me non è mai stato d'intralcio ma solo di sostegno.

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Lei, che non aveva potuto studiare oltre la quinta elementare, mi raccontava sempre di aver chiesto ed ottenuto di poterla fare due volte perché così almeno avrebbe potuto continuare ad imparare, ancora per un po'.

Lei che mi insegnò le addizioni prima che io andassi a scuola,

così sei pronta e sei la più brava della classe!

Insieme passavamo ore in cortile a provare dei movimenti da ginnaste, inventandoli e dandogli nomi strani, che conoscevamo solo noi due.

Dai, dai prova quello!

Fammi vedere come fai quell'altro!

Mi diceva.

Era il nostro alfabeto farfallino, un segreto che conoscevamo solo noi.

Crescendo un po' ci si allontana dai nonni, è abbastanza normale credo.

Gli impegni si accumulano ed i chilometri spesso si moltiplicano con essi.

Mia nonna mi diceva sempre una cosa prima delle gare e degli esami, mi chiamava e la ripeteva, come un mantra:

fai tutto bene!

si raccomandava

fai tutto bene!

Era la mia coperta di linus, il mio bat-segnale sparato sulle nuvole, la benedizione della nonna.

Con il passare degli anni ad ogni tradizione può capitare di ritrovarsi un po' impolverata, ripetuta in maniera meccanica.

E mi dispiace dover ammettere che ogni tanto parlare con lei al telefono sapeva essere snervante: non ci sentiva più tanto bene, e questo per lei, chiacchierona di natura, era motivo di disagio.

Oggi che non è più possibile farlo, se mi suonasse il telefono attaccherei il cellulare alla presa di corrente più vicina e non riaggancerei mai, fino a fonderlo.

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Il quadriennio che mi ha portata a Rio è stato davvero difficile.

Ero il capitano della squadra, e saremmo state una delle punte di diamante dell'intera spedizione azzurra.

Cercavo di mediare tra tutte le teste presenti nel gruppo e dovevo dar fondo a tutte le mie conoscenze di psicologia per tenere la rotta dritta.

In più ero stanca e logora, molto cresciuta per la nostra disciplina.

Volevo del tempo per me, per i miei affetti e per i miei progetti.

Rio sarebbe stata quindi la mia ultima avventura..

A rincarare la dose di una preparazione già complicata ci pensò la malasorte, che sembrava essersi accanita su di me, proprio nei giorni meno adatti.

Avevo dovuto affrontare in rapida successione la malattia di mia mamma e la morte del nonno Antonio, che si era spento proprio davanti ai miei occhi.

Nonna Maria sembrava essersi piegata sotto i colpi di queste picconate, la vedevo ingobbita e più fragile che mai.

Ma mai sottovalutare la nonna.

Pur avendo 88 anni, che non sono certo pochi, aveva reagito come una leonessa alla rottura del femore.

Non solo si era ripresa ma durante le sue lunghe sedute di fisioterapia stressava tutti quanti gli altri pazienti:

mia nipote va a fare le Olimpiadi! Devo rimettermi!
Se non mi rimetto io, che mia nipote va a fare le Olimpiadi, chi deve farlo!?

Eccola lì, mi dicevo, fedele a sé stessa anche in mezzo alle sfide più difficili.

Aveva paura di nuotare eppure si buttava nella vasca della fisioterapia con coraggio da vendere.

Con un coraggio che voglio ricordare.

Che voglio mi ispiri.

Ogni santa volta.

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La nostra routine pre gara veniva sempre rispettata ed io sapevo che sarebbero stati gli ultimi:

fai tutto bene!

legati alla ginnastica e per questo me li assaporavo come non mai, sperando che la sua voce mi distraesse dalla tensione e dalla stanchezza che sentivo addosso.

 

Mentre io mi trovavo sul volo che ci stava portando tutte a Rio, la nonna si è spenta.

Una ricaduta, la febbre alta, l'età.

 

Quando sono atterrata e ho acceso il telefono ho visto i messaggi di mia madre: aveva provato a chiamarmi svariate volte.

Click sul tasto destro, cellulare in stand-by.

Era il momento del cerimoniale ed andava sbrigato in maniera efficiente: le foto, i video, il benvenuto dell'organizzazione.

Un circo necessario.

Rio non mi aveva accolta come mi sarei attesa: era freddo, il villaggio era cupo, tutt'altra cosa rispetto a quello di Londra, la camere erano sporche e spoglie, in una mancava persino la finestra.

Inoltre la mia borsa, piena anche delle mie aspettative, era pesantissima.

Il cellulare in tasca mi continuava a vibrare incessantemente ed io lo continuavo ad ignorare solo perché non vedevo l'ora di sedermi sul letto, tirare un attimo il fiato e dopo, solo dopo, parlare con i miei cari lontani.

Mi collego al wifi del villaggio ma quando faccio per chiamare lo schermo si blocca.

Tutto bianco.

Tasto home: niente.

Tasti laterale: niente.

Impallato.

Mentre lo scuotevo disperata è entrata la mia allenatrice, parlava al telefono:

si è qui, te la passo!

Ed ho capito subito che era successo qualcosa alla nonna.

 

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Mia mamma, da vero avvocato, fu delicata, diplomatica, riuscì a girarci intorno per quanto possibile.

Almeno per qualche istante.

Quando ho riagganciato il telefono per un momento sono rimasta congelata e immobile, senza sapere assolutamente cosa volessi fare.

O cosa fosse giusto fare.

La mia allenatrice mi ha abbracciato in silenzio per cinque o forse cinquanta lunghi minuti. Mi ha aiutato tanto, non era solita farlo, ed avevo un significato molto profondo per me.

E adesso?

Mi chiedevo.

Avevo delle responsabilità, delle compagne più giovani, un ruolo da rispettare, ma non ero certa di essere in grado di affrontare tutto.

Non avrei sentito il suo solito augurio, non questa volta.

Marta Pagnini

Questo pensiero mi colpiva più forte di quanto facesse tutto il resto.

 

Mi sforzai al massimo per non far trasparire nulla alle altre, che già sentivo più fragili ed inesperte di me.

Quello era anche il momento programmato per fare le foto nel villaggio tutte insieme, ed io mi aggiravo tra i casermoni come uno zombie, come se una nebbia nera circondasse me e me soltanto.

Probabilmente lo faceva davvero.

Mi ero spezzata ed ero costretta a non farlo trasparire.

Mettevo la maschera, cercavo di motivare le altre, sentivo sulle mie spalle l'attesa di tutto il movimento.

Un lento e difficile scorrere, dalla mattina fino a sera.

Poi, ogni santa sera, mi rintanavo da sola nel mio angolo a piangere.

 

Finalmente libera.

Ma quando sei libera dalle piccole preoccupazioni quotidiane, se ti spogli di tutti quegli strati, resti tu, nuda e cruda.

Nuda, cruda e libera di accorgermi, quindi, che mi mancava un pezzo.

Libera di stare male per le cose mie più intime.

Marta Pagnini

Piangevo più di rabbia che per dispiacere.

Perché non avevo vissuto niente dei suoi ultimi giorni: la malattia, la morte, il funerale. Tutto era stato ridotto alla comunicazione sopra ad uno schermo e questo mi impediva di elaborare il mio lutto, mi lasciava lì a fluttuare sul dolore senza poterlo mai attraversare per davvero.

Perché se non lo attraversi non lo supererai neanche mai.

 

In pedana ci andai alla fine, con un'inaspettata serenità tra l'altro.

Sentivo che nulla poteva andare seriamente storto per me, per me Marta.

Perché io ero lì per un motivo troppo giusto, per finire un qualcosa in cui la nonna mi aveva sempre supportato ciecamente.

Siamo arrivate quarte, un risultato che sportivamente non ci poteva soddisfare.

Che non avrebbe dovuto soddisfare me, che avevo dato la vita per questo ed ero alla mia ultima chiamata.

Ma non ero triste.

Tutto aveva una luce diversa in quei giorni.

Ero stanca quello sì, il logorio dello sport mi stava consumando, anzi forse mi aveva consumata del tutto ed era una liberazione la prospettiva di smettere.

Marta Pagnini

La sua mancanza è ancora tutta lì, un dolore difficile da sciogliere: non esiste fonte di calore sufficiente per questo.

Si è spenta la luce sul mio rapporto con la nonna proprio mentre si spegneva anche quella con il mio sport, che è stato sempre molto più di quello per me.

È stato come leggere due libri in contemporanea e arrivare all'ultima pagina nello stesso momento.

Chiuderli insieme.

Usando due mani.

E ritrovarsi a fissare il retro delle copertine.

Storia di un'atleta.

Storia di una nipote e di una nonna, la mia.

Ogni giorno le dedico un pensiero.

Porta sempre con sé una profonda sensazione di mancanza.

Ogni santa volta.

Marta Pagnini / Contributor

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