Paolo Nicolai

Paolo Nicolai

14 MIN

Perché è tutto così normale?

La domanda era forse strana ma assolutamente giustificata.

Mi sarei aspettato di sentire tutt’altro, giù alla bocca dello stomaco, in un’occasione del genere.

L’Occasione con la O maiuscola, l’obiettivo di un quadriennio tutto, forse anche più di quello: di una carriera intera.

Prima di Rio e prima della medaglia c’era qualcosa che mi rendeva diverso dagli altri ed era la mia ossessione per i Giochi Olimpici.

Paolo Nicolai

Certo le Olimpiadi sono un sogno, per tutti.

Per tutti ma non per me.

Perché per me erano molto di più: una fissazione, un fuoco inesauribile.

Un mirino, era come se avessi un mirino, un fucile di precisione che mi permetteva di focalizzare sempre il grande scopo, l’obiettivo finale a prescindere da cosa stessi facendo.

Europei, Mondiali, vittorie e sconfitte, dopo l’esperienza che avevo vissuto a Londra 2012 tutto quanto veniva immagazzinato, analizzato e processato nella mia testa solo e soltanto in funzione dei giochi di Rio.

Per cui era davvero strano ritrovarmi a poche ore dalla finale brasiliana, dal vivere quel momento che tanto spesso avevo immaginato, sentendomi completamente, assolutamente, stranamente...normale.

 

Nei giorni che avevano preceduto quel momento tutto era stato un emozionante vorticare di sensazioni rapidissime e molto forti.

Le partite si susseguivano a ritmo frenetico.

I tempi di riposo e di attesa erano ridotti al minimo e l’adrenalina circolava nel sangue ad un ritmo impressionante.

Per certi versi poi la semifinale può assumere, in un contesto del genere, un valore quasi pari, se non addirittura superiore rispetto alla finale stessa.

Sarà quell’incontro infatti a darti la certezza o meno di metterti una medaglia al collo.

Paolo Nicolai

Quando ci sono in ballo le medaglie pesanti essere in semifinale non conta quasi nulla di per sé, perché sei ancora perfettamente in tempo per dare un calcio al secchio del latte e perdere tutto quello per cui hai lottato fin lì.

L’atto conclusivo, quello giocato sotto i riflettori più accecanti, è comunque diverso, perché nella peggiore delle ipotesi avrai vinto un argento e non perso un oro.

 

In finale magari vinci, sicuro non perdi più.

 

A Rio il calendario prevedeva una pausa di 3 giorni prima della sfida per le due medaglie più pregiate e, considerando la formula del torneo, sono stati davvero lunghissimi.

In 3 giorni ho avuto persino il tempo di chiedere a me stesso:

ma davvero mi sto giocando le Olimpiadi?

Le prime 48 ore sono scivolate via con questa strana, inattesa sensazione di calma, di pace.

Nelle ultime 24 comunque mi sarei aspettato un’inversione radicale ed invece tutto sembrava in linea con i giorni precedenti.

La nostra classica routine.

Vuoto totale.

Another day in the office.

Anche la riunione tecnica non è stata diversa dalle altre migliaia che ho vissuto in vita mia.

Abbiamo guardato i video dei brasiliani.

Tirato le somme di quello che avremmo dovuto proporre in campo.

Motivarvi è superfluo, sarebbe da film!

parole e musica del coach.

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Da un certo punto di vista questa inattesa calma aveva i suoi vantaggi perché mi permetteva di separare l’emotività dal gesto tecnico.

Mi aiutava a ricondurre le mie energie verso il gioco, nudo e crudo, spogliandolo dell’emotività il più possibile.

Almeno apparentemente.

 

Perché bisogna dire che anche questa è una fetta di verità: una partita importante se si riesce a spogliarla del superfluo, del contorno, resta una partita, con le sue scelte tecniche e tattiche.

E chi la gioca meglio ha più possibilità di vincerla.

Semplice.

A volte ce lo si dimentica, soprattutto quando in palio c’è molto.

E a Rio c’era in palio tutto per me.

 

La finale era in programma a mezzanotte, per cui abbiamo cenato separatamente e ci siamo recati al campo.

La cena separati merita una piccola riflessione.

Il beach ti permette di essere parte di una squadra ed individuo al tempo stesso.

Avere un grande staff per due soli atleti significa mettere a disposizione di entrambi i mezzi per crearsi un abito su misura, adatto alle proprie esigenze al 100%.

Anche nel dettaglio più piccolo, che piccolo potrà anche sembrare ma certamente non è.

Tutto può fare la differenza.

Nello sport di squadra sarebbe impossibile seguire 10, 15 individui in ogni loro necessità individuale senza perdere di vista lo scopo finale: che sono quasi sempre i meccanismi collettivi.

Paolo Nicolai

Ma nel beach sei in due.

Ti conosci perfettamente.

Accetti le esigenze dell’altro perché sai che lui sta facendo lo stesso con le tue.

Una coppia di solisti.

Più un featuring che una band.

 

Al campo di riscaldamento ho iniziato a sentire la pressione crescere, ma si trattava più del pensiero legato alla partita in sé che non il peso della situazione nel suo complesso.

Eppure i motivi per sentire sulle proprie spalle l’eccezionalità del momento c’erano tutti.

Era da due settimane che ci esibivamo su quella sabbia ma era chiaro che quella finale avrebbe vestito la notte brasiliana di una veste diversa.

 

Era l’ultimo atto, la fine di tutto, e noi saremmo stati per l’amatissima coppia di casa il solo ostacolo rimasto sulla strada per l’oro.

Non riuscivo neppure ad immaginare che cosa mi sarei trovato davanti una volta in campo.

 

Torcida.

Il delirio sul campo principale.

Spalti assiepati in ogni ordine di posto.

Maxi-schermi montati fuori dall’arena.

Cori no-stop per tutto il tempo del riscaldamento.

Tutto il Paese sembrava volerli letteralmente spingere in avanti, sollevandoli di peso sul gradino più alto.

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Ad ogni squadra veniva riservata un’area, un piccolo campo laterale in cui completare il riscaldamento, dove provare gli ultimi dettagli tecnici.

Questi angoli di spiaggia venivano sempre ricoperti con una rete velata che impediva a chi stava al di qua di vedere con esattezza che cosa stesse facendo chi si trovava aldilà.

Serviva, ovviamente, per mantenere la segretezza sugli schemi e per permettere agli atleti di raccogliere tutta la concentrazione possibile.

Fuori dalla nostra area si erano assiepati decine di tifosi verde-oro intenzionati a fare tutto il possibile per impedirci di vivere serenamente i momenti di avvicinamento al match.

Con la loro voglia di farci sentire sotto pressione.

Non gli serviva vederci, gli bastava sapere che noi li sentivamo gridare e cantare.

Ragazzi, il riscaldamento è finito! Si va in campo!

era stato un rappresentante della Federazione a parlare.

Lo staff ha preso la via della tribuna.

 

Noi due, soli, abbiamo imboccato il lungo tunnel che conduceva fino al campo centrale.

 

E lì, finalmente, è cambiato tutto.

Il tunnel nella sua parte iniziale non era altro che un corridoio di tifosi scalmanati, poi, dopo qualche decina di metri diventava un vero e proprio tubo.

 

Chiuso, ovattato, silenzioso.

 

C’è stato un momento nel quale tutto il frastuono che mi stava rimbombando nei timpani da ore si è improvvisamente placato.

È diventato un mormorio lontano.

I miei occhi guardavano la bocca del campo, giù in fondo al tunnel.

 

Il tunnel, metafora fisica di una lunga freccia, che punta decisa in una direzione precisa.

Si percorre solo in una direzione.

One way.

Paolo Nicolai

Ed io ho percepito di essere in un momento speciale.

Un momento unico.

La clip perfetta per raccontare una carriera, una vita intera.

 

Come essere dentro il vaso di Pandora, senza scoperchiarlo.

Un momento che conteneva tutti i momenti insieme.

 

C’era il rumore, lontano, ma anche il grande silenzio interiore.

 

C’era la lucida consapevolezza del percorso fatto, dei quattro anni passati a non pensare a niente di diverso, ma anche il sogno, l’emozione incontrollata.

 

C’era la mia presenza, perfettamente centrata ed in equilibrio, ma anche la confusione distante di quel grande circo.

 

C’era Daniele ma non ho avuto bisogno di guardarlo come faccio sempre prima di entrare in campo perché c’ero io, a vivere il momento mio dentro un momento nostro.

 

È stato il concentrarsi di tutto quello che avessi mai sperimentato in carriera in un solo istante perfetto, inimitabile.

Credo, persino indescrivibile.

 

Eppure nelle mie sinapsi è come se avessi prodotto il ricordo perfetto di quel momento.

Ne ho fabbricato una memoria assoluta, infrangibile ed immutabile.

Un momento chiaro, nitido, con contorni precisissimi.

Paolo Nicolai

Questa straordinaria bolla di completezza mi ha accompagnato fino al campo, ha continuato a circondarmi per tutta la parte finale del riscaldamento.

Mi ha mantenuto in uno stato di coscienza assoluta anche durante l’inno, il più toccante che io abbia mai cantato.

Più del solito, molto più del solito a dire il vero, ho sentito che quelle note rappresentavano un Paese intero.

Per giunta risuonate in terra nemica.

 

Ma la cosa più incredibile di tutte è stato vedere la bolla esplodere come se qualcuno l’avesse bucata con un chiodo nel momento in cui si è giocato il primo punto della partita.

Sono uscito dal momento e mi sono riconnesso al gesto tecnico, come avevo fatto nei tre giorni precedenti.

 

Quei minuti, tutti miei, dal tunnel all’inno sono un acquarello unico.

Il miglior modo possibile di vivere e raccontare un momento raro da vivere ed impossibile da raccontare.

Una fiaba vera.


Tornato a casa ho pensato spesso all’argento di Rio, al modo in cui è arrivato, al viaggio che mi ha portato quasi sulla vetta più alta.

Ho pensato al mio momento prima della finale.

Avevo vissuto quello che pensavo fosse riservato a persone speciali, a persone diverse delle altre: agli eroi.

Gran parte della narrazione sportiva trasforma la competizione in un’epopea romantica, dentro la quale si alternano gli eroi, i cattivi, i premi e le punizioni.   

Il mio viaggio invece non ha niente di tutto questo. Sono un ragazzo come tanti, la vita non mi ha messo davanti a sfide impossibili o grandi sofferenze.

Sono un ragazzo come tanti che ama ciò che fa.

Insomma non proprio un eroe.

Eppure ero li, a giocarmi la partita che ogni bambino sogna di giocare.

Forse per questo tutta la normalità con cui ci siamo avvicinati alla finale Olimpica, mi sembrava cosi strana. Forse tutto quello che avevo letto e sentito sugli atleti che mi avevano preceduto aveva creato delle sovrastrutture in un momento che resta speciale anche se vissuto nella sua normalità.

Per tutto questo, tornato a casa, ho deciso di non credere più negli eroi, ma nella programmazione, nella serietà, nella costanza, nel senso di responsabilità, nell’allenamento e nelle persone.

Sì, perché se è vero che un atleta si giudica soprattutto dai risultati, questo non vale per le persone. Mi rifiuto di legare un risultato sportivo alla persona.

Non esistono i vincenti e i perdenti.

Chi vince non è un eroe, chi perde non è un cretino.

Questo vorrei fosse chiaro.

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Le persone, nel momento in cui scelgono i propri obiettivi, accettano la possibilità di riuscire a raggiungerli o meno, creano la propria strada, cadono e si rialzano, continuano a percorrere quella via che li avvicina al proprio sogno e più se ne percorre più ogni passo prende valore.

Spesso si legge che ciò che conta è il viaggio non la meta: non sono d’accordo. Ciò che conta è come lo affronti questo viaggio, quanto impegno ci metti per avvicinarti alla meta e quanto vale per te la meta.

Allora si che il viaggio diventa protagonista.

L’argento brasiliano mi ha cambiato molto.

Mi ha aiutato a maturare, mi ha spinto a spostare leggermente il mio focus.

Prima era la feroce ambizione, figlia dell’ossessione olimpica a trascinarmi avanti, valutando tutto nella prospettiva a cinque cerchi, sempre e comunque.

Dopo ho iniziato a godermi maggiormente la quotidianità, senza per forza mettere nel binocolo il grande traguardo tutti i giorni.

E ho inclinato il mio asse: dal risultato alla prestazione.

Il che non è cosa da poco, tutt’altro.

 

Perché il tempo e la consapevolezza mi hanno fatto rendere conto che le due cose sono causa ed effetto insieme e se non metto tutto quanto è possibile mettere nella cura della prestazione pura allora neppure il risultato arriverà.

 

L’esperienza di Rio è stata una milestone, un momento di svolta e di crescita.

Se possibile è stato sia un punto di arrivo che uno di partenza.

Un percorso lunghissimo culminato in un momento di pura coscienza.

Un istante di perfetto equilibrio di elementi ed anima.

 

L’affresco della mia carriera.

 

Un tunnel lontano nel tempo e nello spazio.

Mi basta chiudere gli occhi e sono di nuovo lì.

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- Perché è tutto così normale?- La domanda era forse strana ma assolutamente giustificata. Mi sarei aspettato di sentire tutt’altro, giù alla bocca dello stomaco, in un’occasione del genere. L’Occasione con la O maiuscola, l’obiettivo di un quadriennio tutto, forse anche più di quello: di una carriera intera.  Prima di Rio e prima della medaglia c’era qualcosa che mi rendeva diverso dagli altri ed era la mia ossessione per i Giochi Olimpici.
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