Andrea Arnaboldi

Andrea Arnaboldi

12 MIN

Lo sport sa essere molto crudele.

Non solo perché ti può mettere di fronte a situazioni estreme.

Non mi riferisco a questo.

Quanto piuttosto al fatto che più ti spinge al tuo limite e più diventa cinico, spietato.

Senza fronzoli.

Quando due pugili salgono sul ring, per esempio, i primi round assomigliano ad un balletto.

Provocazioni.

Alternanza di colpi.

Gioco psicologico.

A volte persino qualche parolina volante.

Tutto sembra darti la sensazione che quel libro, che hai appena iniziato a leggere, potrebbe prendere qualunque svolta improvvisa.

In ogni possibile significato: tecnico, emotivo, ambientale.

E questo lo rende elettrizzante.

Ma se i combattenti arrivano all'ultimo round che sono ancora in grado di reggersi sulle gambe, allora la musica cambia.

Se ne stanno lì, faccia a faccia, senza nessuna smorfia divertita e si danno un cazzotto per uno, coscienti che potrebbe anche essere l'ultimo.

Sia quello che dai che quello che prendi potrebbe esserlo.

Quando lo sport ti porta al tuo limite tecnico e fisico per sopravvivere devi diventare essenziale.

Se hai un buon jab ed un gancio così così, tirerai solo jab.

Al terzo overtime di una partita di basket canestro lo fanno solo i campioni rimasti in campo, perché i mestieranti hanno svuotato la loro scatola dei trucchi già da un po'.


Sotto pressione bisogna ancorarsi a qualcosa che si conosce alla perfezione, perchè la minima deviazione dalla strada maestra finirà col farti deragliare.

Dopo 4 ore di incontro, le giocate si semplificano.

Si ripetono.

Ma si perfezionano anche.

Diventano ripetitive e crude.

Ma efficacissime.

Se lo fai tu e lo fa anche il tuo avversario, che è al suo limite anche lui, allora si crea un equilibrio perfetto che solo l'errore può spezzare.

L'errore o la giocata estemporanea.

Io ero in Francia, nel 2015, e mi stavo giocando l'accesso al tabellone principale del Rolad Garros.

La terra parigina fa da sfondo ad uno dei tornei con più tradizione in assoluto, un'esperienza straordinaria da vivere.

Il mio primo incontro era andato bene ma la strada verso le partite che contavano per davvero era ancora molto lunga. Non potevo sapere quanto.

Il match numero 2 sarebbe stato contro Herbert, e mai e poi mai avrei immaginato che sarebbe entrato nei libri di storia del tennis.

Sarebbe diventato: il match su tre set più lungo della storia.

Oltre 4 ore e mezza spese a battagliare uno contro l'altro, spogliandoci game dopo game di tutto ciò che non fosse essenziale e finendo, come i pugili descritti sopra, a scambiarcele di santa ragione.

Con la rete di mezzo ovviamente!

Andrea Arnaboldi

Un torneo dell'importanza di quello parigino è uno spettacolo da vivere.

Emozionante anche solo esserci.

L'organizzazione offre un rimborso per diem uguale per ogni atleta, per Federer come per il più giovane degli esordienti, e ti invita a cercarti la sistemazione più adatta alle tue esigenze in completa autonomia.

Ciò che non si vede da casa, quando si guardano gli incontri di cartello stando comodamente seduti sul divano di casa, è l'incredibile ammassarsi di speranze ed aspettative che si riversano sui campi secondari.

Ogni incontro alimenterà il sogno di uno e tirerà una riga rossa su quello di un altro.

 

Democratico.

Ma elitario.

 

Alle spalle del centrale e dei campi principali, che sono 2, trovano spazio altri 18 campi almeno, che si distendono a perdita d'occhio.

Ci vengono giocati anche sei o sette match al giorno.

Un'infinità di incroci che prendono corpo sotto lo stesso sole e sotto la stessa ombra, nei quali ognuno si porta in saccoccia il proprio volere, il proprio stupore.

La propria visualizzazione.

Che verrà confermata o smentita dai fatti.

Atleti che si sono fatti venire i calli alle mani a suon di ore d'allenamento, provenienti da un qualsiasi luogo del Mondo in cui si vendano le racchette, tutti ammaliati dalla stessa grandeur parigina.

In pochi riusciranno a mettere davvero i piedi sul centrale, un posto dove non ti dispiace neppure troppo perdere, perché farlo lì ha comunque sempre qualcosa di epico.

Tutti però calcheranno la stessa terra rossa e ne porteranno un po' a casa nella suola delle scarpe e sui vestiti.

 

Nel mio secondo giorno, dopo aver rimontato e sconfitto Kudla nel primo, avrei affrontato Herbert, francese e quindi con il tifo dalla sua.

Et voilà.

Lo conoscevo e lo avevo già affrontato prima, ma ad esser sinceri non credo che nel tennis lo storico abbia un'importanza poi così grande.

Certo aver già giocato contro qualcuno può darti maggiori elementi per arginarlo, ma la verità è che nel circuito noi ci conosciamo tutti ed in fin dei conti è più importante focalizzare le attenzioni su cosa devi fare tu, piuttosto che su cosa faccia lui.

Nel caso di Herbert però il suo stile era qualcosa da tenere in grande considerazione, perché assomigliava molto al mio.

 

Siamo due attaccanti.

Ad entrambi piacciono gli scambi brevi.

Ci piace scendere a rete e chiudere le giocate con due, tre colpi al massimo.

Servizio e voleè, servizio e dritto.

Comandare.

Comandare ci piaceva a tutti e due.


Il nostro match fu il quinto della giornata ed iniziò per questo più vicino all'ora di cena che a quella di pranzo.

Ma non avevo nessuna percezione che potesse trasformarsi in una maratona del genere.

Il primo set lo vinco io per 6 – 4, abbastanza agevolemente.

Il secondo invece è suo, 3 – 6, rubandomi un break più o meno a metà.

Nel terzo, non esistendo il tie break, si vinceva solo accumulando due game di vantaggio.

6 a 4.

7 a 5.

E così via.

Sul 6 a 5 per me, durante il suo servizio, ho avuto una palla match.

Lungolinea uscito di pochissimo.

Il secondo match point lo avrei avuto il giorno dopo.

2 ore e 10 minuti di scambi dopo.

Nessuno mollava il proprio servizio e scampato il pericolo sul 6 a 5 Herbert aveva preso una confidenza invidiabile alla battuta.

Tra l'altro suo punto forte da sempre.

Sul 15 pari il match è stato interrotto, dopo oltre 3 ore di scambi, per poi riprendere il giorno dopo e ricordo ancora di quando ne parlavo con gli altri giocatori, in albergo, la sera, tutti pensavano che mi riferissi ai punti, mica ai game.

Era dal 13 a 13 che parlavamo con il giudice ed il supervisor di una possibile sospensione ma andavamo avanti perché, in fin dei conti, il match poteva finire in qualunque istante.

Forse è stata proprio questa consapevolezza condivisa a spingerci verso i nostri limiti fisici e tecnici.

Arrivati fin lì nessuno dei due accettava di perdere.

Cioè, meno ancora del solito.

Andrea Arnaboldi

Quando una gara finisce di solito per l'atleta è una liberazione.

O festeggi o ti lamenti, non sempre ti va bene.

Ma almeno la tua mente può focalizzarsi su cosa fare dopo e questo permette al tuo corpo di mollare un po' le redini.

Ti sciogli, soddisfatto o deluso, ma ti sciogli.

A volte dormi come un ghiro, a volte non dormi affatto, però ciò che senti è netto.

Chiaro e indiscutibile.

Ma quella notte per me è stata unica.

È stato come vivere dentro la partita un giorno intero, nel costante miscuglio di pre-gara e post-gara.

Perchè nel pre-gara c'è dentro un po' di tutto: tensione, preparazione, visualizzazione e quella notte è stato impossibile silenziare tutto questo.

L'indomani, dopo quella specie di infinito time-out, tutto era iniziato così come inizia ogni giorno di gara per me: riscaldamento, doccia e poi un pranzo veloce.

Il tennis è uno sport cavalleresco, dove l'etichetta ha ancora un certo peso, per cui il mio match non sarebbe iniziato prima delle 15, come terzo incontro della giornata.

A pochi minuti dal ritorno in campo mi aggiravo quindi per il players lounge, la sala nella quale è possibile mangiare, riposarsi ed osservare in televisione i colleghi giocare.

Nell'attesa di rimettere piede sulla terra.

Vagavo per la sala alla ricerca di un posticino dove sedermi e distendere le gambe ma tutti i posti erano occupati.

Dopo qualche minuto speso a camminare inutilmente tra i tavoli mi sono accorto che uno dei divanetti si era liberato e mi ci sono avvicinato con passo deciso.

Ho coperto il tragitto parlando fittamente con il mio entourage e cercando di evitare di inciampare in qualche borsa o racchetta dimenticata sul pavimento.

Per cui solo quando mi sono seduto sul divano sono riuscito ad alzare lo sguardo.

All'angolo opposto del divanetto, girato di spalle rispetto a me, si era appena seduto qualcun'altro, senza che io me ne accorgessi.

Ho sentito qualcuno imprecare con tono scherzoso:

oh no, anche qui!

Era Herbert!

Ci è scappato da ridere e ci siamo dati una pacca sulla spalla.

Era destino che rimanessimo appiccicati il più possibile a quanto pare, dentro e fuori dal campo.


Quell'incontro è finito 27 a 25, dopo un tempo infinito.

Ho vinto io, dopo ore di battaglia serrata.

Un tempo che è sembrato volare solo per gli spettatori, che si sono goduti l'alternanza dei colpi accompagnata costantemente dalla tensione del punteggio e dall'emozione della fine imminente.

Che poi imminente non è stata.

Gridavano, applaudivano e si lanciavano in oh di meraviglia ad ogni punto o quasi.

Ciò che mi rimane dentro, dopo una giornata del genere è la consapevolezza che ci sono cose che non puoi programmare nello sport ma che, quando queste si palesano scombussolando il normale corso degli eventi, è importante avere dei modelli comportamentali ben impressi nella mente a cui aderire.

Così puoi attraversare la tempesta.

Il desiderio di non perdere c'è sempre.

Ma dopo 4 ore lo senti un po' più forte.

La tendenza ad utilizzare con continuità i propri colpi migliori c'è sempre.

Ma sotto pressione si acuisce enormemente.

Andrea Arnaboldi

È proprio quando riduci all'essenziale il tuo gioco che tiri fuori i colpi migliori e ridisegni i tuoi limiti portandoli più lontano.

Perché quando sei sfinito e ripeti a te stesso:

servizio forte e dritto lungolinea

tutto si semplifica.

Tu spari un servizio forte e preciso.

Poi un lungolinea rapido che sarà altrettanto efficace.

Ma se l'avversario è riuscito comunque a rispondere allora ti sentirai libero, senza briglie e qualunque colpo proverai dopo sarà puro istinto.

 

Perché tu quello che dovevi fare l'hai fatto, non è bastato per fare il punto, ed ora segui il gioco usando non più le corde della racchetta ma quelle della pancia.

Spogliato dalla paura di sbagliare.

 

Se hai fatto tutto bene dopo i primi due colpi, tu in quel game non puoi più sbagliare.

La palla può uscire, ma tu non puoi sbagliare.

 

Uno dei tanti vertici che lo sport può regalarti: la miglior versione di te stesso proprio quando la pressione è al massimo che tu abbia mai sentito.

Come al casinò.

Hai poche carte in mano.

Vai all-in nel momento clou.

E scopri nel momento perfetto di avere una gran faccia da poker.

Andrea Arnaboldi / Contributor

Andrea Arnaboldi