Fanny Smith

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"Ehi Fanny, would you like to go to the Olympics?”

“Ehm… yes. Sure! Why not!?

Ecco, è iniziato tutto più o meno così, con una delle conversazioni più semplici e più casual di tutta la mia vita.

Avevo 14 anni, era appena stato annunciato che lo ski cross sarebbe entrato nel programma Olimpico a partire da Vancouver 2010, e mio padre stava già guardando avanti.

 

Lui e mamma sono sempre stati molto pazienti con me, anche perché non era facile starmi dietro, quando ero piccola. Ho cominciato a camminare che avevo soltanto un anno, e se non chiudevano le porte di casa a chiave, era facile trovarmi attaccata alla maniglia, pronta ad aprirla per uscire senza preavviso e sparire all’orizzonte.

Una volta, mentre ero al supermercato con la mamma sono scappata via di nascosto, e mi sono presentata alla scuola del paese, dicendo a tutti che ero lì per prendere mio fratello maggiore.

Mi dissero dolcemente di aspettare “perché la scuola non è ancora finita”, e poi avvisarono la mamma, che arrivò a recuperarmi tutta preoccupata.

Fanny Smith

Io sono sempre stata così: iperattiva, indipendente, curiosa.

A volte anche dispettosa.

Nella nostra prima casa c’era una vecchia stufa di metallo, a cui mi appiccicavo per riscaldarmi dal freddo invernale appena rientravo, e ricordo che quanto tornavamo dalle lezioni di sci, a volte, portavamo con noi qualche palla di neve, da farci sciogliere sopra.

Come se fosse la nostra piccola sauna personale.

Lo sport è sempre stato lì.

La neve è sempre stata lì.

E i nostri genitori l’hanno sempre capito.

Tutto è iniziato per seguire il mio big brother, di 4 anni più grande, che era un freestyler e che si esibiva con tutti i suoi salti ed i suoi tricks.

Siamo cresciuti nel freddo.

La montagna è il nostro parco giochi fin da quando siamo nati.

E lo ski club era l’appuntamento fisso del pomeriggio almeno quanto la scuola lo era della mattina.

Ero brava al pomeriggio perché tutto era divertente e facile, mentre al mattino faticavo molto di più.

Ero dislessica, avevo problemi a scrivere, ma non lo cambierei comunque con nulla al mondo, perché mi ha insegnato a non mollare, a lavorare duramente, a non smettere di provare.

In classe non ero a mio agio, ma sugli sci, invece mi sentivo sempre al mio posto.

Fanny Smith

E il giorno in assoluto, in cui mi sono sentita più al mio posto che mai, è stato quello in cui ho provato lo ski cross.

Sembrava fatto apposta per me.

Competizione pura, con quella sensazione di sfida, nello scendere fianco a fianco con le altre. Sentire i gomiti che si sfiorano, l’adrenalina che sale.

Il dover calcolare la propria traiettoria e allo stesso tempo quella altrui.

Il cervello lavora veloce.

Il cuore batte.

I riflessi sono accesi.

La pista è la stessa per tutti, ma ognuno gli può dare la propria interpretazione, il proprio pensiero. Cambiano le linee, cambiano le idee: è una forma di arte in movimento.

Ed io me ne sono innamorata subito.

Avevo 12 anni.

All’epoca, era uno sport molto giovane, semi-sconosciuto, e non esistevano tante strutture, corsi, e opportunità per praticarlo.

Lo ski cross non era paragonabile in nessun modo allo sci alpino, era una nicchia nella nicchia del freestyle. Qualcosa di distante, di curioso.

Per qualcuno persino di inutile.

Nessuno sognava di diventare un grande campione della disciplina.

E forse è anche per questo che mi è subito piaciuto tanto: nessuno si aspettava niente da me. Neppure io.

Passare dall’uno all’altro non mi è pesato affatto, perché io non avevo un vero obiettivo nello sci. Non avevo uno scopo, o il desiderio di diventare davvero forte.

Mi divertiva sciare. E quindi sciavo.

E quando ho trovato qualcosa che mi divertiva persino di più, ho cambiato.

Senza preoccupazioni, senza paure.

Ed è stata la mia fortuna.

Fanny Smith

Due anni più tardi, il Mondo scoprì di colpo che lo ski cross sarebbe diventato uno sport olimpico, e questo cambiò le prospettive di tanti ragazzi. Tra cui anche le mie.

I miei genitori vedevano la mia passione, capivano quanto mi divertisse davvero sciare, e facevano sempre tutto il possibile per permettermi di farlo.

Mamma era un’insegnante, e in più doveva prendersi cura di mia sorella minore, quindi faceva fatica a spostarsi per le gare o gli allenamenti.

Mentre papà invece aveva maggiore libertà sul lavoro, e riusciva sempre ad organizzarsi per portarmi in giro.

La Federazione svizzera non aveva soldi per lo ski cross, e allora lui riuscì a trovare dei piccoli sponsor e un allenatore. Creò per me una piccola squadra.

Il loro obiettivo era aiutarmi a trovare la mia strada.

Fece del mio sogno, il sogno di tutta famiglia, ma senza mai, neppure una volta, farmene sentire responsabile. E io, dal lato mio, ho fatto del mio meglio per dimostrare che la loro era stata la scelta giusta.

“Tu vai. Divertiti. Noi vediamo cosa riusciamo a fare”, diceva sempre così, con la semplicità di chi fa le cose per amore e non per ottenerne qualcosa in cambio.

Always believe: questo era il loro motto.

C’era sempre luce, allegria, leggerezza in casa.

Erano presenti, ma ci lasciavano anche liberi di sbagliare, di imparare le nostre lezioni da soli, di rinunciare a quello che non volevamo più.

Hanno sempre visto il bello in ogni cosa, e mi hanno insegnato a fare altrettanto.

A 16 anni ho lasciato la scuola per diventare una professionista dello ski cross e loro mi hanno sempre sostenuta, anche se la disciplina era ancora così piccola.

Così apparentemente senza prospettive.

Fanny Smith

©Romina Amato Red Bull

Ormai sono nel circuito da tanti anni, e l’ho visto trasformarsi, cambiare, crescere.

Sono stata ospite, poi compagna e infine protagonista del cambiamento, del suo sviluppo.

Sono fiera di averci creduto, almeno quanto sono grata che mamma e papà abbiano creduto in me, e investito tempo, denaro e amore nella mia felicità.

Dopo la prima edizione dei Giochi, che è stata come la fine di un lungo viaggio di famiglia, ho iniziato a sentirla più come una cosa “mia”, e meno una cosa “nostra”.

In fondo, il loro grande sogno, quello di vedermi felice e realizzata, poteva dirsi esaudito.

Ma quando scendo in pista, anche dopo quattro edizioni dei Giochi, in un angolo del mio cuore, continuo a sentire anche il calore del loro desiderio.

La responsabilità di rappresentarli.

Di portarli con me.

E, di solito, si esprime nella forma di una profonda voce familiare, che mi sussurra all’orecchio: ehi Fanny, always believe.

Fanny Smith / Contributor

Fanny Smith