Rey Mysterio è sempre stato il mio wrestler preferito.
Era più piccolo degli altri: iniziava gli incontri sempre in secondo piano, quasi dimenticato dalle telecamere. Poi, all'improvviso, grazie a qualche mossa geniale e a qualche acrobazia spericolata, riusciva a fare qualcosa di grande, di inaspettato, che cambiava le carte in tavola e che gli dava una chance di vittoria.
Piccola, ma reale.
Così si arrivava al momento della mitica “619”, la mossa che finiva gli avversari e che faceva impazzire il pubblico.
Mi sono sempre sentito un po’ come lui.
In casa, l’attività principale dei nostri pomeriggi era quella di imitare i grandi campioni della WWE, e io, schiacciato tra i miei fratelli maggiori e mia sorella, che era già più robusta di me, mi esaltavo ad imitare Rey Mysterio, nella speranza di vincere nonostante non fossi il più alto, il più forte, o il più muscoloso.
Ci sentivamo come le grandi star del ring, come se ci fosse il pay-per-view ad ogni incontro, come se in ogni sfida ci fosse in palio un’enorme cintura.
Sono quelli i ricordi più belli che ho, quelli più puri.
Quelli in cui non c’erano ancora responsabilità, ma ero comunque abbastanza grande per apprezzare la compagnia degli altri e il gusto della sfida.
Si viveva per lo sport in casa.
Giocavo a football in autunno, a basket in inverno e a baseball in estate.
Senza fermarmi mai.
E altrettanto facevano i miei fratelli.
Avevo anche la fortuna di essere bravo a scuola: ero un ragazzo sveglio, e questo mi permetteva di avere tantissimo tempo per giocare, e per inseguire i miei sogni.
Del baseball e del football adoravo le partite, l’adrenalina del game-day.
Ma mi annoiavano a morte gli allenamenti, che erano lunghi e molto ripetitivi.
Quando poi, giocando a football, ho subito due concussion in due anni, è stato ancor più facile lasciarlo, senza rimpiangere mai la decisione.
Certo, il gioco era bello, come era bello anche il baseball, ma non appena mi sono trovato davanti all’esigenza di scegliere, non ho avuto un singolo dubbio.
Il basket è sempre stato la mia scelta.
Perché il basket non aveva bisogno di niente più delle sue stesse basi per rendermi felice.
Non servivano gli avversari, dei bei campi in parquet, o delle motivazioni particolari. Mi bastavano una palla ed un canestro, nient’altro.
E io non mi stancavo mai di lui.
Potevo passare un pomeriggio intero a tirare, da solo in un playground, e non mi accorgevo neppure del tempo che passava.
Né diminuiva la mia voglia di migliorarmi, di provare ancora.
Di ricominciare daccapo.
A volte, è successo di pensare che il mio amore non fosse ricambiato.
Così, quando sono uscito dall’high school e nessun college di Division I mi ha cercato, ho iniziato a dubitare di me stesso, delle mie qualità, del senso di tutta quella mia passione.
Zero offerte di borsa di studio dai migliori college del paese.
Niente di niente.
Un silenzio che mi riempiva la testa di domande.
Senza una borsa di studio andare al college è molto costoso, e mi sono chiesto più volte, se quella fosse la strada giusta da seguire, se ne valesse davvero la pena.
Sia per me, che per la mia famiglia.
Alla fine ho scelto di andare a Northern Colorado, in Division I, ma di farlo come walk-on, e cioè pagando gli studi.
È come se l’università ti dicesse che non crede in te come atleta, ma che se sei iscritto ai corsi, e vuoi venire sul parquet a farci vedere cosa sai fare, nessuno ti impedirà di farlo.
Quando sono arrivato per il primo giorno di allenamento, non c’era un singolo giocatore che non fosse più bravo di me.
Ho sempre saputo che dovevo lavorare più di tutti gli altri, anche solo per essere notato, perché la gente si ricordasse il mio nome.
Proprio come Rey Mysterio.
Anche oggi, quell’impostazione mi è rimasta: vedo e rispetto il talento degli altri prima di apprezzare il mio. Come se avessi una vocina nel cervello che mi ricorda, giorno dopo giorno, che devo fare di più per dimostrare di valere davvero il livello in cui mi trovo.
Ma più passa il tempo e più io vado avanti, anche se ogni step è una conquista da difendere con le unghie e con i denti.
Dalla Svezia alla Germania, dalla Germania alla Spagna, e adesso anche all’Eurolega: continuo a sentirmi un’underdog e, allo stesso tempo, continuo a sentirmi perfettamente a mio agio nell’esserlo.
Perché tutto è ancora una sfida, per me.
Proprio come lo era lottare contro i miei fratelli maggiori, quando fingevamo di essere i campioni più amati della WWE e nessuno avrebbe scommesso un dollaro su di me, piccolo com’ero.
Ma è questo, forse, che mi descrive meglio di qualsiasi altra cosa: più le persone pensano che non abbia il diritto di essere da qualche parte e più trovo divertente dimostrare a tutti il contrario.