Irene Vecchi

Irene Vecchi

12 MIN

Chiedo il tempo tecnico perchè il ginocchio mi fa male.

Sono 5 minuti di pausa per le cure mediche.

Ci si fa fasciare, si prova a far qualcosa.

Qualunque cosa che riesca a rimetterti in piedi in tempi miracolosi.

Storia di pochi giorni fa, tappa di Coppa del Mondo di sciabola in Belgio.

Incontro per entrare nelle migliori quattro.

Mentre il fisio prova a rabberciarmi in maniera sufficiente a tornare in pedana e tirare, il mio cervello vola con il ricordo a qualche mese fa.

E le immagini che mi passano davanti agli occhi mi fanno salire i brividi su per la schiena.


22 luglio di quest’anno

Lipsia, Mondiali.

Agli ottavi incontro Sara Balzer, francese.

La conoscevo bene, non dico solo tecnicamente, ma anche a livello umano.

Il clan italiano e quello francese avevano condiviso tutto il ritiro pre-mondiale, finendo spesso a cena insieme, a passeggiare in gruppo, attività da ragazze normali quali siamo quando togliamo la maschera.

Sono mie avversarie certo, ma in pedana. Fuori sono atlete che condividono i miei stessi sacrifici, sogni, aspirazioni. E se una vince l’altra non può far altro che perdere.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

Quel giorno Sara, in pedana contro di me si è spaccata un ginocchio. Completamente distrutto.

Accasciata a terra in posizione fetale aveva tirato un urlo così forte da far tacere simultaneamente l’eco di tutte le stoccate che venivano tirate nell’impianto.

Quella leonessa era tornata sulla pedana e cercava, barcollando, di attaccarmi, aggrappata al suo sogno come io lo ero al mio. Non sapevo bene cosa fare, guardavo il mio team con aria confusa, non volevo attaccarla, ero toccata dall’essere attrice non protagonista di un momento del genere.

Lei si era poi accasciata di nuovo ed io non ero riuscita a far altro che piangere lacrime empatiche e accosciarmi su di lei, cercando nel dizionario della mia mente le parole giuste da dirle.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi


Oggi sembra toccare a me; mentre cerco di rimettermi in piedi per tornare in pedana mi tornano alla mente tutti i dettagli di quel giorno estivo e spero, spero con tutte le mie forze che non sia niente di grave.

In passato sicuramente non mi sarei riuscita a ricomporre e avrei finito con il perdere quell’incontro, vivacchiando nei miei soliti alti e bassi, tecnici ed emotivi.

Ma non questa volta.

Torno in pedana sul 13 a 11 per me, mi ricaccio in gola il pensiero che adesso lei mi salterà addosso a dumila e mi rimetto a fare quello che so fare meglio: tirare di sciabola.

 

A fine giornata il mio ginocchio, seppur un pochino malandato, sorreggeva perfettamente il mio peso e anche quello della medaglia che portavo al collo.

Io sono una ragazza molto emotiva ed empatica in tutto e ovviamente il rapporto con il mio sport non fa eccezione. In ogni sua sfumatura ciò che succede sulla pedana è per me motivo di grande trasporto.

Guardare le mie compagne più piccole azzannarsi a vicende nel tabellone di qualificazione mi spinge a soffrire con loro, ad immedesimarmi.

E anche se so che ognuna di loro, sopravvivendo a quel tabellone e arrivando a quello principale, potrebbe essere quella che elimina me, non riesco a non farmi trasportare dalla passione quando le osservo.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

Quando si avvicina il mio momento di salire in pedana poi, tutto diventa lento, l’orologio è quasi fermo ed il ritmato scandire degli incontri, (ore 11, ore 11.15, ore 11.30, ore 11.45) sembra arenarsi proprio all’orario che precede la mia ora X. Me ne resto nella call room dove controllano le armi e l’attrezzatura, a combattere con un ovo sodo piantato in mezzo allo stomaco, che non va né su né giù.

Smetto di essere emotiva quando l’arbitro ci da il: pronti a voi, lì mi trasformo e mi godo l’incredibile bellezza di quello che faccio.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

La sciabola è un’arma unica, davvero.

Assolutamente diversa dal resto del panorama della scherma.

La pedana della sciabola è quel posto dove il puro istinto incontra la tattica, generando una danza velocissima ma perfettamente in equilibrio.

Sono assalti rapidi, diretti, frutto tanto della massima velocità di esecuzione possibile quanto della dimestichezza del gesto che è stata costruita attraverso la ripetizione maniacale.

Ti lasciano con il fiato sospeso e l’occhio imbambolato.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

A pensarci bene comunque se porto la mia sciabola in giro per il Mondo è merito anche di mio fratello minore.

I miei genitori hanno un background sportivo, ma sportivo amatoriale, quel modo sano e allegro di vivere l’attività fisica.

Io da bambina ero una citta un po’ cagionevole per fare sport su base continuativa ed in più, dovendo scegliere, a me piaceva la pallavolo. O al massimo la ginnastica artistica per seguire la passione di un’amichetta, ma quella è stata una breve parentesi perché il tutù rosa non mi donava granchè.

Ma il mio fratellino era diverso: aveva già le idee chiare, lui voleva assomigliare il più possibile al suo eroe Zorro, e quale posto migliore di una scuola di scherma per farlo?

Già a tre anni e mezzo stressava l’anima a tutta la famiglia per essere portato lì e non appena la sua età glielo ha consentito ci ha trascinati tutti appresso a lui.

E così il primo ricordo che ho della scherma sono io con le mani aggrappate alla porta ed i piedi ancorati al pavimento un centimetro prima di quell’ingresso, indosso dei pantaloni a righe stile carcerata.

I miei genitori cercano di spingermi da fuori e mio fratello di 2 anni più piccolino di tirarmi da dentro.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

Ma con l’arma in mano tutto poi è cambiato, ogni cosa ha preso colore e trovato un posto preciso nel cosmo.

Mi sono innamorata via!

Tutto questo amore per la mia arma ritorna ogni volta che salgo in pedana, ogni volta che devo prendere un aereo che mi fa stare tanto male per lei, ogni volta che guardo negli occhi un’avversaria.

Come ogni amore è sopravvissuto grazie anche ai sacrifici ed alla forza di rimettersi in gioco. L’amore, quello vero, ha bisogno di una rinfrescata a volte per mantenersi giovane e scintillante.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

Circa un’anno fa me ne sono andata dalla mia Toscana, sono uscita dalla mia comfort zone, per cambiare casa, allenatore, prospettive.

Per cambiare tutto.

Per smettere di vivacchiare sui risultati che già avevo dimostrato di saper ottenere, e per cercare di fare di più.

Oggi sono felice, serena e determinata.

I risultati hanno sorpreso me prima di tutti gli altri e mi hanno spinto a vedere le cose con una consapevolezza diversa.


Nella tappa di pochi giorni fa in Belgio ho avuto tante conferme ovviamente e sono tutte piccole gioie da conservare, perché ti danno la forza di continuare a concentrarti sul presente, che poi è la sola cosa che conti veramente nello sport.

La medaglia individuale mi ha mostrato come sono cresciuta emotivamente, imparando a tenere sotto controllo quel lato emotivo che l’infortunio stava tirando fuori.

L’oro a squadre, ottenuto fianco a fianco alle mie compagne, mi ha mostrato invece una volta di più l’incredibile forza che un gruppo riesce ad avere quando visualizza per davvero un obiettivo.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

Il nostro è uno sport unico, soprattutto a squadre.

Perché la squadra, che negli altri sport viene romanticamente descritta come più della somma degli individui, nel nostro invece lo è per definizione.

La somma dei singoli.

Perché in pedana sei sola e le tue compagne non possono aggiungere o togliere niente alla tua scherma.

I tuoi punti si sommano a quelli delle altre, matematica pura.

Ma è proprio per questo, per questo asettico assemblamento di talento, che a fare la differenza sono le qualità umane.

Ad andare avanti e fare risultati sono quelle squadre che se ne fregano di questo paradigma matematico e vivono il loro essere gruppo al 100%.

E noi siamo così: unite nelle difficoltà, critiche l’un l’altra in maniera costruttiva e pazze a sufficienza per volerci bene dentro e fuori dalla pedana

Ma ciò che più ci rende grandi è da sempre la capacità di rialzarci dopo aver preso le sberle, tutte insieme mano nella mano, visualizziamo l’obiettivo e ci riproviamo.

Dentro di me continua a sgambettare la città con i pantaloni a righe.

Ma adesso non vivacchio più.

Voglio il massimo.

Il massimo per me, il massimo per la mia squadra.

In ogni competizione: Mondiali, Europei e Coppa del Mondo.

 

È bello fare risultato, sono belle le medaglie ma ciò che è ancora più stimolante è prendere in mano il calendario e vedere in quanti posti sparsi sul mappamondo sono pronta a portare la mia sciabola, preferibilmente in treno però.

Irene Vecchi

© Augusto Bizzi

Irene Vecchi / Contributor

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