Manuela Furlan

11 MIN

Decenni di sport, decenni di rugby.

Migliaia di allenamenti.

Centinaia di partite.

Infiniti placcaggi, passaggi, imprecazioni.

Legnate. Date e ricevute.

Sveglie all’alba, sbronze, trasferte.

Adesso che è finita tutto ha dei contorni netti, molto precisi. Ma quando ci sei in mezzo, tra una stagione e un’altra, tra un torneo e l’altro, è come un flusso, un continuo mescolarsi di immagini, di istanti.

Giorni che si assomigliano sempre.

Ma che, non per questo, smettono di farti sentire la vertigine allo stomaco, la tensione per il primo impatto. L’adrenalina del branco, del gruppo.

La carriera è come un’enorme opera lirica, che è piena di acuti e di bassi, piena di magia e di tensione, di dramma e di gioia, ma che, quando finisce, si perde nel tempo: riecheggia per un po’, si spegne, e vive soltanto nel cuore di chi l’ha scritta.

 

Eppure, è strano accorgersi di come, in mezzo al mio racconto, i momenti più difficili e più intensi, quelli in cui ho avuto paura di qualcosa, emergano dal resto.

Diventano più precisi, nella memoria.

Si attaccano ai numeri, alle sensazioni.

Quando il cuore e il fisico si spaccano, la mente si allarga, come in un abbraccio, per provare a tenere tutto insieme.

E prendono corpo i dettagli, come nessun altro istante prima o dopo di quelli.

Il dettaglio diventa parlante.

Manuela Furlan

3 settembre. Anno 2022. Amichevole numero 1 delle 2 che avremmo giocato prima di partire per i Mondiali. Minuto numero 76. Vengo placcata da dietro, il ginocchio gira. Scricchiola. Fa lo stesso rumore di un pezzo di legno secco buttato nel fuoco. Ma lo fa velocemente. E lo fa dentro il ginocchio. Sono io a suonare così.

Mi convinco a rialzarmi, ma la coscienza è già divisa a metà: una parte sa già di aver ragione, ed ignora le bugie dell’altra. Provo a muovere la gamba. Ma il ginocchio si muove incontrollato. Rifiuto la barella. E in un pianto che non c'entra nulla col dolore fisico mi trascino fuori dal campo. Come se fossi davvero io la protagonista della mia storia, vedo tutto passarmi di fronte agli occhi, e non capisco se allora è davvero così che funziona, o se funziona così proprio perché lo hai sentito dire tante volte. Sento tutto il caldo, tutto il freddo, tutto il fango, tutti i lividi, tutte le sveglie, tutte le trazioni. Dura meno di un minuto, ma ogni immagine è eterna.

Finisce qui.

Finisce nel pasticcio di un crociato spezzato e di un collaterale staccato di netto. Finisce nel tremore di un ginocchio che non sa più fare altro che restare fermo, che traballa se provo anche solo a girare la testa.

E quello che succede dopo è altrettanto infermo, altrettanto incerto, perché le due fazioni in cui si era spaccata la mia coscienza nel momento del crack, hanno continuato a vivere separate, pur condividendo un corpo. Rotto per giunta.

Ognuna con il proprio pensiero.

Ognuna con le proprie risposte.

A tirarmi da una parte all’altra, come una marionetta incapace di darsi pace.

Manuela Furlan

Per una delle due metà, l’infortunio è arrivato quasi come un sollievo.

Il sollievo massimo.

Quello in Nuova Zelanda sarebbe stato il mio primo mondiale da capitana, e anche il mio ultimo mondiale da giocatrice.

C’era stata la pandemia, con i miei 70 metri quadrati scarsi di casa trasformati in una palestra di solitudine. Ore e ore di esercizi, compressa come milioni di altre persone, per tenere accesa una piccola fiamma, un piccolo sogno di grandezza.

Mai così importante.

Mai così esiziale.

C’era il lavoro, il lavoro “quello vero”, quello che paga le bollette. Una ditta di logistica, che mi ha sempre capita e trattata bene, ma che, allo stesso tempo, mi consumava giorno dopo giorno, spingendo gli allenamenti sempre più ai confini del mio giorno. Le 5 della mattina, la sera tardi.

C’era il ruolo da capitana, quella sensazione che non ti abbandona mai di essere la responsabile di qualsiasi cosa, soprattutto quelle che non ti riguardano affatto. La latente convinzione che nessun’altra mai si prenderebbe tale peso, ma che chiunque sarebbe felice di definirsi capitano. Il dubbio di piacere.

La sensazione di doverlo fare.

Tutto questo era sparito in un crack. Tutta l’ansia, tutta la paura, come se non fosse più compito mio.

L’altra metà di me, però, ragionava in maniera molto più spiccia, terra-terra, perché di quella stessa terra ne aveva sempre mangiata parecchia, e non si faceva problemi a maledire il destino.

Perché a me?

Sì, lo dicono tutti, ma perché proprio a me?

Perché adesso?

Perché a me che sono all’ultimo mondiale e che ho già detto a tutti, nel senso di proprio tutti, che dopo il torneo mi sarei ritirata?

Perché a me che, per essere all’altezza, ho deciso persino di lasciare il lavoro e di dedicare 6 mesi della mia vita solo e soltanto a questo?

Perché a me, che ho accantonato il piano B?

Perché adesso dopo una carriera senza grossi infortuni?

Perché proprio nel momento in cui non avevo più una singola alternativa?

Manuela Furlan

Capisci di essere davvero nuda quando le persone da cui ti aspetteresti direttive chiare, ti chiedono “cosa vuoi fare?”.

Come cosa voglio fare?

Me lo dovete dire voi, cosa devo fare!

Ti operi? Non ti operi? Continui? Smetti? Torni a casa?

Le domande si moltiplicano e tu diventi sempre più piccola, sempre più dubbiosa. Come se tutti i paracadute fossero bucati, come se per la prima volta da quando conosci il rugby, tu potessi “davvero” farti del male.

E il corpo, in tutto questo, è soltanto il mezzo per sentire dolore.

Non il dolore in sé.

Mille ortopedici per mille pareri.

Ogni referto un consiglio, ogni consiglio un pianto, d’isteria, di rassegnazione o di speranza. Come una folla di persone, dove tutti provano a sovrastare la voce degli altri, all’improvviso ne ho sentita una. Una che mi diceva che forse, al Mondiale ci sarei potuta andare.

E non ho più sentito nient’altro.

Neppure le parole di chi pensava, o credeva di sapere, che fosse una cazzata.

E anche qui, di nuovo, la nitidezza del dettaglio. Tutore, rigido come un gesso. 20 giorni di eparina. 21 settembre visita di controllo, da sola, col mio zainetto. La faccia indecifrabile del dottore. La sensazione che mi stesse facendo un piacere. Il peso del capitanato. Le telefonate a tutti i parenti. Le 30 ore di volo. Il ginocchio che scricchiola, e il mio cervello che se ne frega.

Manuela Furlan

Mi portano al Mondiale, e forse potrebbe anche finire così.

Ma non lo fa, perché i mondiali di rugby sono lunghi, e mentre le ragazze giocano le partite del girone, io scavo dentro il “mio” mondiale, dentro il mio perché.

I giorni tornano ad essere un condensato di cose informi, che nella mia memoria prendono le sembianze di una sala pesi e del sorriso stiracchiato del fisioterapista. Palestra prima della colazione, colazione, palestra col primo gruppo, palestra col secondo gruppo, pranzo, riunione, lavoro in un angolo durante l’allenamento delle ragazze, cena, letto. Alzarsi e ripetere.

Passano le settimane e le due parti della mia coscienza vivono un’esperienza parallela, senza guardarsi mai. Mi sento utile, dicono persino che io stia sorridendo molto più del solito.

Conforto le ragazze, le sostengo, faccio il capitano.

Ascolto chi ha voglia di parlare, parlo con chi ha bisogno di ascoltare, mi sfondo in palestra: do l’esempio.

Però vivo anche giorni di sconforto, uno sconforto silente. Sono dall’altra parte del mondo, il mio ginocchio è rotto quanto lo era prima, io non giocherò mai più e quando finirà questa euforia dovrò ripartire da capo. Senza rugby e senza lavoro.

Non so contro cosa io stia correndo.

Ma la squadra gioca bene. La squadra vince anche quando soffre, battendo il Giappone si qualifica per la prima volta nella storia azzurra ai quarti di finale, maschi inclusi. E io mi sento come la mia, in piccolo, fosse l’intera fiaba del rugby.

L’intero racconto dello sport.

Un giorno mi alzo, e nel cielo c’era il sole, e dal quel giorno lì non ho più visto una nuvola fino alla fine del torneo.

Inizio a correre, in linea retta, con cautela, ma il mio sorriso si vede anche dall’Italia. La muscolatura intorno al ginocchio tiene piuttosto bene, e vorrei vedere con il culo che mi sono fatta. Siamo all’ultima settimana di ottobre, 7 settimane dopo l’infortunio, e il mio nome, accolto letteralmente con un lancio di coriandoli dalle altre, è tra quello delle convocate.

Piango ancora, come ho fatto spesso negli ultimi mesi. Ma è un pianto diverso, come quando ritrovi un vecchio amico, o come quando ti accorgi di nuovo di quanto sia bella o sensibile una persona cara, che per troppo tempo hai guardato con leggerezza. I pezzi si riattaccano.

Sono disponibile: io sono disponibile, prima di tutto verso me stessa e verso il mio desiderio più grande.

Dalla Francia alla Francia.

Abbiamo perso, di nuovo.

Ma io sono entrata in campo, ho giocato gli ultimi 10 minuti, e toccato persino un paio di palloni.

È stata la mia ultima partita, ed è durata meno di qualsiasi altra abbia mai giocato, ma per qualche ragione profonda è anche la più bella in assoluto.

I miei referti medici continuano ad essere lunghi come un tema, e io so per certo che, prima o poi, il ginocchio lo dovrò sistemare con un’operazione, o da vecchia diventerò zoppa.

Dieci minuti, 600 secondi che continuano a tornarmi in mente, anche tra migliaia di allenamenti, centinaia di partite, infiniti placcaggi, passaggi, imprecazioni, legnate. Date e ricevute, sveglie all’alba, sbronze e trasferte.

Perché ho dubitato e mi sono risposta.

Sono stata nuda e mi sono rivestita.

Mi sono rotta a metà e ho riattaccato i pezzi.

Manuela Furlan / Contributor

Manuela Furlan