Michele Bruno

8 MIN

Io non mi sono innamorato del tennis.

Mi sono innamorato dei tramonti in riva al mare, dove il mio papà giocava i tornei amatoriali, la sera, poco distante da casa, e dove tutto mi sembrava così grande e così importante.

Il rumore della pallina.

Le grida del pubblico.

Il profumo del sale e il suono delle onde.

Le coppette per i vincitori che brillavano nella penombra del tramonto: qualunque bambino avrebbe sognato di farne parte, un giorno.

A cinque anni, tornato a Roma dopo un’estate passata a guardalo giocare, mi sono subito fatto iscrivere alla scuola di tennis più vicina che c’era, per diventare bravo quanto lui.

Era quello che volevo fare.

Ed è quello che ho fatto per un bel po’ di tempo.

Di anno in anno, mi sono costruito una buona tecnica e dei fondamentali puliti, come fanno tutti gli atleti che cominciano a giocare presto e che già da bambini passano migliaia di ore a memorizzare il perfetto gesto tecnico.

Ho fatto anche qualche buon risultato, senza riuscire però mai ad emergere del tutto.

C’è un’età strana, nel tennis, che coincide con l’adolescenza, in cui può sembrare che una singola vittoria, o una singola sconfitta, abbia il potere di cambiare il corso della tua storia.

Fenomeno o brocco.

Promessa o azzardo.

Testa calda o predestinato.

A sedici, diciassette anni, tutto ciò che ti circonda, siano essi addetti ai lavori, sponsor, amici o semplicemente la stampa locale, è pronto a dare un peso assoluto ad ogni tuo piccolo successo e ad ogni tuo piccolo inciampo.

Il problema è che della vita, in quegli anni, non capisci ancora granché, e basta che qualcuno ti ripeta tre volte una cosa per farti finire col credere che sia vera.

Michele Bruno
Michele Bruno

Ha un bel tennis, ma poca testa.”

Nel mio caso è stata questa la bugia diventata realtà.

Arrivato ai vent’anni, schiacciato tra ciò che credevo fosse vero e ciò che lo era sul serio, mi sono pietrificato davanti alla porta del professionismo, indeciso se provare a suonare il campanello o riprendere la strada di casa senza fare rumore.

Così ho deciso di girare i tacchi e di tornarmene da dove ero venuto.

 

Allora iniziai a lavorare, sempre nel tennis ovviamente, perché la passione resiste anche ai ceffoni più rumorosi. Mi dedicai all’insegnamento, sperando di passare il mio “bel tennis” a qualcuno che avesse più testa di quella che avevo io. Così avrei reso felici anche coloro che avevano dubitato di me.

La vita scorreva tranquilla, e dell’occasione persa mi ero fatto una ragione, finché un giorno, dalla sera alla mattina, proprio in mezzo ai miei rettangoli preferiti, spuntarono delle pareti trasparenti, e si materializzò il primo campo da padel della mia vita.

Mi ci avvicinai per gioco, convinto che come era venuta, quella moda, se ne sarebbe anche andata, seguendo l’esempio del poco fortunato beach tennis, durato il tempo di un tormentone estivo.

 

Il gioco in sé per sé mi è piaciuto subito.

Quando ancora sognavo di diventare un grande tennista adoravo i colpi al volo e le discese a rete. Esprimere tutta la mia creatività tra smash e volèe era ciò che mi rendeva più felice. E nel padel ce ne sono in abbondanza di entrambe.

Michele Bruno
Michele Bruno

Non che prendessi molto sul serio lo sport ultimo arrivato, anzi.

Era poco più di un passatempo, utile per tenermi in forma, e molto divertente per i nostri tesserati, che avevano una scusa in più per passare i loro pomeriggi a gironzolare tra i campi del circolo.

È una disciplina intuitiva, immediata e in cui, rispetto al tennis, serve molta meno qualità per riuscire a giocare in maniera semi-competitiva.

Esistono i giocatori bravi e quelli scarsi ovviamente, come in tutti gli sport, ma c’è una differenza sostanziale. Se due coppie di amici vogliono fare una partita a tennis e il loro livello non è esattamente identico, qualcuno finirà con l’annoiarsi.

È matematico.

Il padel, invece, ha una curva d’apprendimento molto più abbordabile, che ti permette di apprezzarlo anche dopo pochissime ore, prendendo dimestichezza con il gioco ed il suo dinamismo, grazie ad una pallina che è sempre viva.

La strada per la cima è in salita come in qualsiasi altra disciplina, ma per divertirsi bastano davvero una manciata di game insieme alle persone giuste.

E questa è una vera rivoluzione.

Lo è stata per tanti, e di certo lo è stata anche per me.

Girarci intorno non serve a nulla: il padel mi ha dato una seconda vita, personale e agonistica, restituendomi tutto quello che ho lasciato per strada, con tanto di interessi.

Dai primi allenamenti alle partite ufficiale il passaggio è stato breve.

Altrettanto lo è stato quello tra le battute sul “campo con le pareti” e la voglia di raccontare a tutti i miei amici quanto fosse divertente.

La mia tecnica di base ed il mio stile di gioco erano talmente adatti al padel che nel giro di poco mi sono ritrovato di nuovo davanti alla porta del professionismo, come accaduto quasi dieci anni prima.

Non me ne sono andato e non ho suonato il campanello, perché questa volta non avevo nessun dubbio e soprattutto nessuna autorizzazione da chiedere.

Ho messo la mano sulla maniglia e sono entrato, senza aspettare che qualcuno rispondesse, esattamente come avrei dovuto fare la prima volta che sono passato da lì.

Michele Bruno
Michele Bruno

Negli anni a venire, sono arrivato fino al numero uno del ranking italiano, e quando è successo, ho imparato anche a sopportare l’ironia di chi mi chiedeva: “sì, ma numero uno di cosa?”.

Oggi, in ogni circolo d’Italia c’è un campo e quasi tutti hanno provato a giocare almeno una volta. Il padel ha raggiunto la popolarità del tennis, è entrato nei palinsesti televisivi e tutti ne conoscono le regole.
E
a quei pochi che ancora non le sanno, se me lo chiedono, le spiego con il sorriso sulle labbra, perché quello che mi ha dato questo sport, non riuscirò comunque mai a restituirlo per intero, quindi è meglio almeno cominciare.

Uno sport che ho approcciato senza le aspettative, senza i vincoli e le pressioni che avevo da adolescente, molte delle quali, ho imparato grazie al padel, me le ero create da solo.

Sono diventato un atleta molto più consapevole dell’investimento che c’è dietro ogni allenamento e della fragilità dei momenti di gioia, che la delicatezza rende più belli, e non più spaventosi.

Il risultato è il motore di un professionista, ma non basterebbero cento sconfitte di fila, a farmi passare la voglia di giocare, e visto come è finita la mia avventura nel tennis questo è già un traguardo importante.

Andrò avanti finché posso.

Viaggerò finché posso.

Resterò in alto finché posso.

Finché la pallina rimbalza contro il vetro e io avrò fiato per andarla a prendere.

Michele Bruno
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Michele Bruno / Contributor

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