Karsten Warholm

9 MIN

Alla partenza dei 400 ostacoli di Tokyo, io mi sentivo invincibile.

Ero come un vecchio vichingo.

Ero come i mie avi, come i miei antenati conquistatori.

Pronto a partire per il mare, per la guerra, per la fama eterna.

Schiaffi sulle cosce, schiaffi sul petto, sulle spalle.

Uno schiaffo sulla guancia, per attaccarmi al momento presente: il modo ricordare qualcosa al mio corpo: che io ero lì, che noi eravamo lì per un motivo.

Mi considero intelligente a sufficienza per sapere che quella poteva anche essere la mia unica occasione di diventare campione olimpico.

Spero che non lo sia, ma non posso escluderlo.

Fatico duramente affinché ce ne siano molte altre ancora, a partire da Parigi, ma la certezza che tutto andrà sempre secondo i piani non può darmela nessuno.

Nemmeno il lavoro.

Ci sono gli infortuni, ci sono gli imprevisti, ci sono le crisi di coscienza e ci sono anche gli avversari, che quando scrivono la loro storia non si preoccupano certo di te. E che fanno benissimo ad ignorarti.

Perché nessuno può promettere a nessuno che il nuovo Usain Bolt non compaia proprio nella tua disciplina.

La disperazione è un motore potente, ed io mi ci sono aggrappato con tutte le forze.

Karsten Warholm
Karsten Warholm

Su quel blocco sapevo di non essere il solo a sognare in grande.

Sapevo che in molti avrebbero puntato al mio trono: dalla prima all’ultima corsia tutti avevano qualcosa da dire, tutti avrebbero rinunciato a tanto, pur di fare la gara della vita. Sapevo anche che almeno uno di loro, l’americano Rai Benjamin, aveva nelle gambe il Record del Mondo, e che non mi sarebbe bastato scendere sotto i 46.70 che avevo fatto ad Oslo un anno prima per vincere l’oro.

Allora ho corso per la mia vita.

Ho corso come se qualcuno mi stesse inseguendo.

Come se dalle mie gambe dipendesse il futuro di un popolo intero.

Ho corso con la rabbia di un uomo solo, anche se non lo sono.

Con l’arroganza di sentirmi il migliore, anche se non lo pensavo.

Con la fame di chi non mangia da tempo, anche se non era vero.

Ho vissuto un’Odissea lunga 400 metri, dove ogni atleta nasce e muore alla fine di ogni salto, senza mai staccare gli occhi dall’arrivo.

Senza guardarmi intorno.

Senza sbattere le palpebre.

Senza pensare.

Senza essere niente.

Solo vento, sete e luce.

Karsten Warholm

Non mi sono accorto degli spalti vuoti, né prima né dopo l’arrivo, ma questo non significa che non mi sarebbe piaciuto sentire il boato di 80 mila persone al traguardo.

Vuol dire soltanto che quel momento era mio, e di nessun altro.

Neppure degli spettatori.

Niente lo avrebbe reso più grande, niente lo avrebbe reso più importante, perché dentro aveva già tutto il significato che il mio cuore fosse in grado concepire.

Di sopportare.

Era già tutto lì, e lo avevo portato io.

Vedere il numero 5 sul cronometro è stata un’esperienza extracorporea, come vedere un UFO atterrare sulla pista, ma con la fortuna di avere tanti testimoni al mio fianco, perché se lo avessi fatto da solo non ci avrebbe creduto nessuno.

Una dimensione nuova, inesplorata.
Così inattesa che quasi non sai che farci, a parte strapparti di dosso i vestiti.

Vincere e fare il Record del Mondo, questo era il mio sogno.

Mai avrei osato pensare di scendere sotto il muro dei 46 secondi, né mai avrei pensato che fosse possibile farlo.

Sono numeri che esistono, e che resistono, proprio per dare un contorno all’atletica stessa, un limite al pensiero, un’aspirazione a chi si sfonda di lavoro, giorno dopo giorno.

I 9 secondi nei 100 metri, i 19 nei 200, i 2 metri e 45 nell’alto: sono ideali più che obiettivi. È un gioco a somma zero, dove perdono tutti tranne la Storia.

Non saprei davvero dire che valore abbia il 45.94 di Tokyo per gli altri, ma nel minuto che ho vissuto passato il traguardo, ha significato tutto per me.

Karsten Warholm

Oggi, so che quel tempo è come una spada a due lame.

Come una doppia verità, che è vera sempre e che non è vera mai.

Sapere che nessuno, mai, ha mai corso più veloce di così i 400 metri ostacoli, dà un senso di pienezza, di realizzazione.

Mi fa sentire di essere un’ispirazione, e di esserlo per i motivi giusti.

Per qualcosa che ho conquistato.

Dall’altro lato, però, continuo a vivere quotidianamente dentro la bolla dello sport, e in quella bolla, sentirsi il più veloce di sempre deve essere normale. Deve essere dimenticato.

Deve essere una frase, nulla più.

Una curiosità.

Perché non può più essere una motivazione, forse non lo è mai stata, e nella fatica di tutti i giorni, non puoi aspirare ad altro che essere la miglior versione di te, qualunque cosa significhi in quel momento. Chiunque tu sia, a qualunque età.

Ricordo quand’ero un bambino, e la spada a due lame era un’altra: quella della mia timidezza. Sono cresciuto intorno agli adulti, perché oltre ai miei genitori, insieme a me, c’erano sempre anche i nonni e li zii.

Il bello e il brutto: ho sviluppato presto delle qualità importanti. Ho imparato a parlare e a muovermi tra i grandi prima di tutti i miei coetanei.

Ma ero anche timido con gli altri bambini, incapace di esprimere tutta la mia creatività e le mie idee.

Li vedevo come dei barbari, degli stranieri.

Una volta, io e i miei genitori andammo in vacanza, e quando provarono a portarmi in un asilo nido, dovettero tornare a prendermi in meno di un’ora, perché ero traumatizzato dall’incubo di trovarmi in mezzo a tanti sconosciuti.

Un limite su cui ho dovuto lavorare con pazienza, per provare a diventare chi volevo diventare.

Karsten Warholm

Uguale funziona l’atletica, che ha avuto il grande merito di darmi tutta la confidenza che non avevo di mio. Dopo anni passati a giocare a calcio, un giorno, passeggiando nel centro del paese, mi sono imbattuto in una garetta amatoriale.

Due, 300 metri al massimo, da correre in cerchio, intorno al municipio.

Ho vinto.

Mi sono sentito come non mi ero mai sentito prima, e ho iniziato un viaggio che non è ancora finito.

Della timidezza resta poco, forse soltanto quella voglia di osservare gli altri che hanno tutti coloro che sono restati a lungo in disparte. La volontà di guardare i dettagli, di cercare gli sguardi della gente, di visualizzare i loro pensieri.

Perché esiste una linea sottile tra l’essere e il voler essere e, in questo, lo sport è una scorciatoia.

Nello sport, il credito va all’uomo nell’arena.

Va a colui che è dentro lo stadio.

Colui la cui faccia è coperta di sudore.

Quello che sbaglia ancora e ancora, sotto gli occhi di tutti, ma che continua a tornare, con entusiasmo e dedizione. Quasi senza sapere il perché.

Quello che si spende per una causa.

Quello che si sacrifica per un obiettivo.

Il vichingo che salpa per mare, senza timori e col fuoco nel cuore.

Karsten Warholm / Contributor

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